Aggressiva ed emotiva. Sono le parole chiave del brand creato dalla giocosa Niki de Saint Phalle. Capace di muoversi sapientemente tra arte e commercio come nessun’altra professionista prima di lei. Il Kunsthaus Zürich le dedica un’esaustiva ed illuminante mostra. L’occasione per incontrare Ann Demeester, la nuova direttrice, che ci racconta della sua visione di museo del ventunesimo secolo. Reportage e intervista pubblicati sul numero 105 del magazine italiano POSH
Gli angeli custodi sono invisibili. A Zurigo, tuttavia, le cose appaiono differenti. Qui L’Ange protecteur, una scultura lunga 11 metri e pesante oltre una tonnellata, si libra con le sue ali dorate a 15 metri sopra le teste dei viaggiatori che attraversano il grande atrio della stazione centrale. È una delle “Nanas”, voluttuose e colorate figure femminili che trasmettono gioiosa spensieratezza, con cui Niki de Saint Phalle (1903-2002) ha raggiunto la fama mondiale e che, in linea con lo spirito della loro creatrice, continuano a stimolare il discorso sulla femminilità e sui ruoli di genere. La voluminosa scultura fluttuante non solo si presenta con le evidenti fattezze di un angelo disceso dal cielo, ma assume anche il ruolo di ambasciatore ideale di una vasta ed emozionante retrospettiva che, a poche fermate di tram dall’Hauptbanhof, il Kunsthaus Zürich dedica a una delle artiste più iconiche della sua generazione. Più di 100 opere che, oltre a evidenziare come la de Saint Phalle sia sempre rimasta innovativa, coraggiosa e indipendente durante tutto il suo percorso artistico, rivelano la sua personalità e intimità. L’esperienza traumatica della violenza sessuale subita dal padre, il rapporto teso e problematico con la madre e il proprio ruolo come donna sono presenti nella sua opera; molti suoi lavori sono infatti un’occasione di confronto diretto, di vera e propria resa dei conti con persone ed eventi del suo passato. Come donna dall’aspetto elegante, era inoltre una figura solitaria in un mondo artistico ancora dominato dagli uomini, in cui seppe comunque ritagliarsi un posto importante e ben definito. Esperienze borderline e stati psicotici hanno per di più accompagnato sia la sua giovinezza che i suoi inizi artistici.

Leonardo Bezzola, Niki de Saint Phalle, Lucerna, 1969. Stampa alla gelatina d’argento, 31,7 x 31,8 cm Kunsthaus Zürich, 2009. Foto © Nachlass Leonardo Bezzola Opera © 2022 Niki Charitable Foundation, All rights reserved / ProLitteris, Zurich
Lei stessa considera questo aspetto come il motore più importante della sua carriera artistica: “Ero una giovane donna arrabbiata, ma ci sono molti giovani uomini e donne arrabbiati che non diventano artisti. Sono diventata un’artista perché non avevo scelta, non avevo bisogno di prendere una decisione. Era il mio destino. In altri momenti della storia sarei stato rinchiusa per sempre in un manicomio. Ho accolto l’arte come una liberazione e una necessità”. Il complesso delle sue opere è sorprendentemente ricco di sfaccettature: eccentriche, emotive, cupe e brutali, umoristiche, profonde e spesso provocatorie. L’ampio spettro della sua attività abbraccia la pittura, il disegno, l’assemblage e le sculture di grandi dimensioni, ma anche le performance, il teatro, il cinema e l’architettura. Niki de Saint Phalle ha affrontato in modo approfondito tematiche sociali e politiche e ha messo in discussione istituzioni e modelli consolidati, a riprova della rilevanza contemporanea del suo impegno. “Il nostro obiettivo è quello di far scoccare una scintilla altrettanto bella e pericolosa, in modo che la sua arte possa accendersi” afferma il curatore Christopher Becker. “Ci siamo messi al lavoro e abbiamo fatto una cernita di tutte le fasi creative, da opere molto piccole a opere molto grandi, e nei media più diversi. Tuttavia, una mostra non può che presentare una selezione. Siamo consapevoli che la sua opera sia molto più vasta e variegata. Ma questo non importa; al contrario, ci dimostra di avere a che fare con un’artista la cui opera è ancora lontana dall’essere colta in tutte le sue sfaccettature e questo è un bene, perché mantiene viva la curiosità su Niki de Saint Phalle ancora oggi e sicuramente per molto tempo a venire. Per fortuna!”. Con questa esposizione, che lui stesso definisce d’addio, Christoper Becker conclude la sua esperienza ventennale alla guida del Kunsthaus Zürich, passando il testimone ad Ann Demeester, nata a Bruges in Belgio e già direttrice del Frans Hals Museum ad Haarlem nei Paesi Bassi. L’abbiamo incontrata.

Ann Demeester @ Franca Candrian
Sei la prima donna a dirigere il più vasto museo d’arte della Svizzera. Cosa hai provato quando hai saputo di essere stata scelta come direttrice del Kunsthaus Zürich?
È stata una sensazione incredibile, come vincere i Giochi Olimpici, solo che con le Olimpiadi la fatica è alle spalle, mentre in questo caso lo sforzo è tutto davanti a me, dovendo dimostrare di essere degna di questo onore. Ho sempre ammirato il Kunsthaus con la sua incredibile collezione di capolavori iconici e il suo continuo senso di scoperta di artisti sconosciuti. Il museo si compone inoltre di quattro edifici differenti, ognuno con la propria atmosfera. Mi sembra di essere all’inizio di una grande avventura.

Niki de Saint Phalle, Tea Party, ou Le Thé chez Angelina, 1971 Poliestere dipinto, 190 x 120 x 100 cm mumok – Museum moderner Kunst Stiftung Ludwig Wien, Prestito dell’austriaca Ludwig-Stiftung, dal 1981 Foto: mumok – Museum moderner Kunst Stiftung Ludwig Wien, © 2022 Niki Charitable Art Foundation, All rights reserved / ProLitteris, Zurich
Avendo dedicato una mostra a Niki de Saint Phalle è segno che il ruolo delle artiste è in fase di rivalutazione nell’attuale contesto della storia dell’arte. Quali altri passi devono essere compiuti per garantire che una maggiore diversità vi sia rappresentata?
Già prima della mia nomina il Kunsthaus ha organizzato e programmato numerose esposizioni di artiste donne come Niki de Saint Phalle, per l’appunto, ma anche Yoko Ono o Alexandra Bachzetsis. È logico che queste artiste siano incluse, per la qualità delle opere e perché non si può ignorare la metà della popolazione mondiale. C’è ancora molto lavoro da fare per includere una più ampia gamma di artisti differenti in termini di etnia, cultura, background migratorio, orientamento sessuale, ecc. Vanno inoltre considerati aspetti come la programmazione, la composizione del team museale e l’insieme del pubblico. Per esperienza so che si tratta di un processo lungo, difficile e talvolta doloroso, e che non esiste una formula magica per rendere un museo sempre più “diverso”. Essere consapevoli della rilevanza di queste tematichei, al di là degli orientamenti politici, e mostrare quanto la nostra società sia così incredibilmente variegata, è il primo passo. Poi è necessario discutere su come implementare questa diversità. Nei Paesi Bassi, abbiamo deciso di farlo collettivamente con una rete chiamata “Museums Admit Color” (I musei ammettono il colore), dove abbiamo collaborato con attivisti per presentare workshop e un manifesto per documentare i nostri ideali e principi. Un museo però non può fare tutto da solo, c’è bisogno anche del coinvolgimento della comunità. Spero che troveremo metodi collettivi per affrontare questo tema anche in Svizzera e mi aspetto di imparare da molti dei miei colleghi che sono già impegnati su questo tema.

Kunsthaus Zürich, Georg Baselitz, 45, 1989 © Georg Baselitz Foto: Franca Candrian, Kunsthaus Zürich
Siamo costantemente bombardati da immagini, comprese quelle che creiamo quotidianamente coi nostri dispositivi digitali. Perché è ancora importante visitare e trascorrere del tempo in un museo?
Potrei rispondere con una frase fatta: “Continuiamo a vedere i film al cinema, piuttosto che rimanere a casa”. L’esperienza dello stare insieme in uno spazio fisico è molto diversa da quella rimanere seduti da soli sul divano davanti al televisore o di fronte allo schermo del proprio i-Phone o computer. Il museo è una sorta di “realtà parallela”: non si entra solo in un edificio, ma in un’altra mentalità, in cui si è più concentrati e si presta maggiore attenzione. Durante la crisi pandemica, un collega di Amsterdam ha sostenuto che andare al museo è il più grande “viaggio” che si possa fare rimanendo vicino a casa, poiché permette alla mente di viaggiare senza spostarsi fisicamente. Una forma eccellente di viaggio in poltrona. Questo salto in un’altra dimensione aiuta ad avere un incontro “a tu per tu” con un’opera d’arte, oltre ad affinare la nostra attenzione. Gli studi hanno dimostrato che i visitatori dei musei guardano un oggetto per circa tre minuti, rispetto ai 30 secondi dedicati a un’immagine sui social media. Essendo condizionati a essere sempre meno concentrati e attenti, visitare un museo ci allena a fermarci, a rallentare, a lasciare che i nostri pensieri vadano altrove per poter concentrarci su un’opera d’arte. Inoltre, quando si guarda uno schermo digitale, lo si fa solo con gli occhi, mentre in un museo, si ha un’esperienza più “corporea” dell’arte, grazie alla componente fisica della presenza e a una risposta emotiva dovuta alla vicinanza agli oggetti.

Kunsthaus Zürich, edificio Chipperfield Veduta dell’Heimplatz con l’instalazione «Tastende Lichter» (2020) di Pipilotti Rist, © Pipilotti Rist Foto: Franca Candrian, Kunsthaus Zürich
Dopo quasi due anni di scambi, incontri e confronti, il 24 agosto scorso il Congresso Internazionale dei Musei (ICOM) ha approvato la nuova rivoluzionaria definizione di museo: “Un museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro al servizio della società che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano in modo etico e professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione delle conoscenze”. Cosa ne pensi?
Un tempo i musei erano considerati “palazzi sulla collina” che esponevano oggetti bellissimi, dotati di esperti che fornivano tutte le risposte alle domande di un pubblico passivo. La grande rivoluzione espressa dall’ICOM sottolinea la trasformazione del museo da custode del patrimonio artistico del passato a luogo che possa concentrarsi anche sul presente e sul futuro. Esporre i capolavori di grandi artisti come Michelangelo e Kandinsky è ancora importante, ma oltre a essere semplicemente ammirate, siamo sicuri che queste opere “parlino” ancora al pubblico? I musei non servono più solo a ospitare gli oggetti, ma a presentare idee e porre domande, a offrire una pluralità di verità e di modi di guardare un’opera d’arte. Come fare? Nei Paesi Bassi abbiamo lavorato con iniziative di base e con progetti in dialogo con comunità specifiche (nuovi immigrati, bambini, ecc.), organizzando conferenze e dibattiti; dovremo trovare i formati giusti da utilizzare qui a Zurigo, perché tutto quello che so dal mio lavoro nei Paesi Bassi potrebbe non valere in Svizzera dove l’approccio all’arte è differente. Quindi non ho ancora una soluzione definitiva, ma questo è il mio obiettivo e dovremo trovare gli strumenti per raggiungerlo. E non lo faremo da soli come Kunsthaus. Siamo circondati da altre organizzazioni come lo Schauspielhaus, il Landesmuseum, il Fotomuseum Winterthur, la Fondazione Beyeler, ecc. che stanno anch’esse affrontando le medesime questioni: Penso che le soluzioni a queste sfide debbano essere trovate insieme.

Kunsthaus Zürich, edificio Chipperfield Hall centrale con la scalinata di accesso Foto: Juliet Haller, Amt für Städtebau, Zürich
Ritieni che il mondo dell’arte digitale possa essere presentato nel contesto di un’istituzione tradizionale come il Kunsthaus Zürich? E i non-fungible token potrebbero diventare un metodo alternativo per l’archiviazione dell’arte oltre che una possibile fonte di guadagno?
Sicuramente mi trovo d’accordo con l’idea d’includere la presentazione di arte digitale in un museo. Nel nostro spazio fisico siamo ancora orientati a esporre oggetti, poiché è complicato presentare in un ambiente così tradizionale, opere immateriali visibili solo attraverso uno schermo. Comunque il Kunsthaus ha sviluppato un laboratorio di arte digitale disponibile sul suo sito web, mentre nell’ampliamento realizzato da David Chipperfiel è allestito uno spazio dove gli artisti possono sviluppare nuova arte digitale. Ho qualche dubbio invece sull’uso dei formati digitali come metodo di archiviazione dell’arte. Se vogliamo archiviare un dipinto di 300 anni fa, abbiamo tutte le conoscenze per conservarlo tenendo conto di fattori esterni come temperatura, umidità, luce, ecc.; possediamo inoltre il bagaglio tecnico per poterlo restaurare, se fosse necessario. Con l’arte digitale l’archiviazione è più problematica. Al Frans Hals Museum ci siamo dedicati all’arte immateriale (digitale, video, performance, ecc.), constatando che non solo era necessario disporre di un’enorme capacità di memoria nei server, con conseguente dispendio di energia, ma anche di un sempre aggiornato supporto tecnologico in grado di continuare a mostrare un’opera magari concepita negli anni ’60. In futuro quest’arte sarà destinata a scomparire, poiché non saremo più in grado di mostrarla. Per quanto riguarda infine i non-fungible token, sembra che alle Gallerie degli Uffizi di Firenze e al Museo statale Ermitage di San Pietroburgo abbiano trovato un modo per generare entrate dagli NFT, deduco pertanto che vi sia un potenziale economico al riguardo. Credo però vi sia scetticismo nel mondo dell’arte su questo concetto, poiché gli NFT non sono considerati arte in sé. Rimango dell’idea che l’utilizzo degli NTF sia entusiasmante quando serve a generare nuove forme d’arte senza l’ausilio di pennelli, tele o macchine fotografiche, come già alcuni sofisticati e intelligenti artisti stanno già facendo.

Il nuovo Kunsthaus Zürich Foto © Luxwerk, Zurigo
Il recente ampliamento del Kunsthaus Zürich realizzato dall’archistar David Chipperfield è un oggetto iconico. Come pensI di utilizzarlo tenendo conto degli altri tre edifici che compongono il complesso del museo?
Trovo che l’edificio sia incredibilmente delicato ed elegante, per nulla freddamente roboante o monumentale. Chipperfield ha creato uno spazio al servizio dell’arte e del suo pubblico, e lo fa “sottovoce”. Il foyer è particolarmente emozionante e si presta, come per gli altri dinamici spazi non adibiti a esposizioni, a essere valorizzato ad esempio con sfilate di moda, concerti, performance, ecc.; mentre il giardino, ancora una tela bianca, potrebbe ospitare picnic o feste nel periodo estivo. Insomma è un edificio che invita a lavorare con esso. Gli altri tre immobili possiedono un proprio carattere che li rende unici, cercare di omogeneizzarli con il Chipperfield sarebbe un errore. Dobbiamo studiare a come rendere ciascuno di questi spazi (Moser del 1910, Pfister del 1958 e Müller del 1976) ancora più efficace e funzionale. Perché “il tutto è maggiore della somma delle parti (molto varie)”, e questi quattro differenti edifici, insieme rendono il Kunsthaus Zürich ancora più attraente.

La Collezione Bührle allestita nell’edificio Chipperfield © Franca Candrian
Quali sono le principali sfide che il Kunsthaus Zürich è chiamato ad affrontare sotto la tua direzione?
Innanzi tutto come gestire il passato conflittuale legato alle nostre collezioni. Quella privata di Emil Georg Bührle (rinomati capolavori dell’impressionismo francese su cui grava una pesante eredità storica: opere acquistate tra il 1936 e il 1956 grazie ai proventi dell’attività di produzione e vendita di armi al regime nazista, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, n.d.a.) ne è l’esempio più ovvio. Ogni museo deve affrontare questa problematica, poiché le collezioni storiche possono avere spesso origini difficili e contestate. Oltre a salvaguardare l’arte, dobbiamo essere in grado di bilanciare emozioni e opinioni sulle collezioni, e saper contestualizzare le opere che mostriamo, tenendo ben presente che l’opera d’arte in sé non è una prova criminale forense, ma per l’appunto è un’opera d’arte. Secondo uno stimato collega, direttore di un museo svizzero, non dobbiamo permettere che le opre d’arte diventino vittime dei loro precedenti proprietari, ma allo stesso tempo dobbiamo affrontare seriamente queste preoccupazioni, evitando d’ignorare l’argomento. In definitiva non possiamo eliminare la storia dalla storia dell’arte. L’altra sfida da affrontare, comune a tutte le istituzioni artistiche, è una diretta conseguenza della società iper tecnologica in cui viviamo, ed esemplificata dai miei figli che costantemente guardano TikTok in segmenti di mezzo minuto. Come possiamo convincere le persone a prestare attenzione e come persuadere la “Generazione Z” che non solo non è noioso vedere l’arte in un museo, ma che può anche essere interessante e divertente? Dobbiamo far cambiare idea a coloro che considerano i musei monotoni e irrilevanti. Ovviamente non possiamo competere con la velocità del mondo digitale, ma come possiamo essere comunque stimolanti? Siamo capaci di costruire relazioni con il pubblico già interessato all’arte, ma non creare relazioni con i più giovani. Purtroppo al momento non disponiamo di una soluzione rapida o una formula magica per affrontare queste grandi sfide.
Intervista realizzata il 29 settembre 2022 al Kunsthaus Zürich e pubblicata in anteprima sul numero 105 del magazine italiano POSH
Niki de Saint Phalle – Retrospettiva
Immagine di copertina Niki de Saint Phalle, I Am the Nana Dream House, 1969 Stampa su carta, 15 x 20,3 cm Musée d‘art et d‘histoire Fribourg Foto: Musée d‘art et d‘histoire Fribourg © 2022 Niki Charitable Art Foundation, All rights reserved / ProLitteris, Zurich Tutte le immagini Courtesy Kunsthaus Zürich Si ringrazia per la collaborazione Kristin Steiner, Björn Quellenberg e Christopher Hux