Il respiro del colore

È da tutti riconosciuta come la Grande Dame del design internazionale. Libera da retaggi e condizionamenti, Hella Jongerius coltiva da anni una sensibilità eclettica, sperimentando le potenzialità dell’ibridazione tra moderne tecnologie industriali e arcaiche tecniche artigianali. Ispirata da un intuito straordinario è riuscita a trasformare l’aspetto cromatico del design in un’esperienza immersiva. Il suo obiettivo? Contrapporre la forza del colore a quella della forma. Questa la mia l’intervista pubblicata sul numero 95 del magazine italiano POSH

Si potrebbe descrivere Hella Jongerius come una rivoluzionaria. Nonostante la sua carriera vanti collaborazioni con alcuni dei brand più importanti del mondo, la celebre designer olandese con studio a Berlino ha sempre cercato di sfidare le convenzioni dell’industria. Lasciando dichiarazioni poco ortodosse, rifiutando di trasformare il suo nome in un marchio, facendo di tutto pur di non essere “alla moda”. Eppure lei, la moda, la detta. Parliamo di una mente creativa fuori dagli schemi, una persona che nel corso della sua carriera ha sovvertito l’arte del design, diventando fonte d’ispirazione per un’intera generazione di professionisti e studenti di tutto il mondo. Nonostante sia poco nota al grande pubblico, probabilmente noi tutti ci siamo imbattuti nel suo lavoro, spesso inconsapevolmente. Ha disegnato per aziende iconiche come Ikea, Camper o la compagnia aerea KLM, progetta innovativi tessuti, prima per Kvadrat ora per Danskina, mentre per Vitra, nel ruolo di art director per colori e superfici, attualizza le icone del design, senza per questo stravolgerle. Unendo tradizione e contemporaneità è riuscita a introdurre nel processo produttivo industriale il tema dell’imperfezione, tipica del manufatto artigianale, conferendo agli oggetti quello che lei stessa definisce “carattere”. Complementi d’arredo unici, eleganti, facilmente adattabili a qualunque ambiente e imprescindibilmente colorati! Dopotutto osserviamo quotidianamente il mondo a colori, ma raramente apprezziamo o ci accorgiamo di come il colore possa forgiare e plasmare ciò che vediamo. Partendo da questo presupposto, Hella Jongerius indaga materiali, linee, volumi e sfumature cromatiche per riflettere sulla nostra percezione e sull’influenza della luce, in bilico tra arte e design. Un decennio di studi fenomenologici e di esperienze pratiche culminati in Breathing Colour, il suo più recente progetto espositivo allestito, fino al 22.08.2021, al Gewerbemuseum Winterthur (Zurigo), spazio che esplora regolarmente le questioni relative ai principi fondamentali del design e il loro impatto sull’arte. La mostra, composta quasi interamente di nuove opere, è uno sbocco concettuale per le sue frustrazioni sul modo ristretto e poco fantasioso in cui gran parte del mondo del design si occupa di questi temi. Articolata in tre spazi separati, nei quali viene riprodotta la luce naturale così come si evolve nei vari momenti della giornata, mattina, mezzogiorno e sera, l’esposizione si trasforma in un indimenticabile viaggio attraverso le profondità dei nostri occhi e della nostra mente. 

Breathing Colour – Design Museum London © Luke Hayes

In Breathing Colour mostri come il colore sia in grado di dare forma a ciò che vediamo, ma anche come luce, ombre, riflessi e materiali possano influenzarlo. Cosa pensi ancora sfugga del colore a molti designer industriali?

Ritengo che i cosiddetti “color designer” dedichino più attenzione alla psicologia che alla realtà dei colori. Ripercorrendo le epoche storiche sono i pigmenti e le loro limitazioni ciò che più attira la mia attenzione. I pittori del primo Rinascimento, come Raffaello e Michelangelo, o quelli olandesi, come Jan van Eyck, lavoravano con una tavolozza molto esigua poiché a quel tempo erano veramente pochi i pigmenti disponibili sul mercato. Mescolandoli erano comunque in grado di ottenere una vasta varietà di colori. Anche i capolavori di Vermeer o Rembrandt mi affascinano, soprattutto per l’utilizzo che viene fatto dei pigmenti e delle tinte derivate. I maestri olandesi hanno rivoluzionato la scena artistica nel XVII secolo, utilizzando la pittura a olio per catturare la forte enfasi della luce e il suo effetto sulle superfici. Miscelavano vernici con pigmenti naturali estratti da ingredienti preziosi che provenivano da luoghi lontani. La magia di questi dipinti nasce proprio dalla ricchezza e dalla complessità dei materiali utilizzati. È interessante notare come l’industria contemporanea offra ai designer una ristretta palette di pigmenti. Per essere chiari: ci sono ovviamente molti colori disponibili, ma i pigmenti in circolazione e su cui si basa anche questa mostra sono scarsi. È questa limitazione industriale che toglie qualità e ricchezza al mondo del colore in cui viviamo.

Breathing Colour – Gewerbemuseum Winterthur © Bernd Grundmann

In che modo le acquistite esperienze professionali ti hanno motivato a intraprendere gli approfonditi studi sul colore, alla base di questo progetto espositivo? 

Ciò che mi ha spinto a ricerche sempre più dettagliate su questo argomento, è stata la difficoltà nell’accedere a vernici, lacche e granulati plastici che fossero in grado di soddisfare la mia visione del colore come designer industriale. La qualità finale del colore, quello che per intenderci osservo nei dipinti e in natura, è il modo in cui reagisce alla luce. Il processo creativo che ha portato a questa mostra è iniziato nel 2011, quando realizzai Color in changing daylight, un’installazione a forma di ruota che documentava il cambiamento ottico dell’aspetto colorato di una palla di argilla, tra le ore 8:00 e le 17:30 di un giorno di fine giugno. È seguito poi uno studio che mirava a creare un nuovo vocabolario cromatico, come reazione alla piatta e globalizzata industria del colore, e a celebrare il pieno potenziale di quest’ultimo. Ho scoperto infine il metamerismo, un fenomeno della colorimetria che fa sembrare due colori uguali anche se in realtà non lo sono, una sensazione che si verifica quando i colori cambiano se osservati in condizioni di luce diverse. L’effetto, fortemente indagato dal settore industriale, è stato sempre evitato dalle aziende ritenendolo privo di potenziale di mercato. La mia ricerca, costellata di analisi ed esperienze, si concentra sul rapporto tra forma e colore, sul momento in cui un colore eleva un oggetto a una nuova dimensione e sul ruolo dell’ombra in questo processo ottico.

Breathing Colour – Design Museum London © Luke Hayes

L’esposizione ha un forte carattere ludico. Cosa speri si portino a casa i visitatori? 

Il mio desiderio è quello di equipaggiare il pubblico a una migliore consapevolezza dell’uso del colore nella scelta di prodotti di design industriale. I colori sono sempre presenti attorno a noi, ma cambiano quando sono esposti a diverse condizioni di luce, dimostrando che i riflessi colorati sono di natura atmosferica, non materiale. Attraverso i miei Colour Catchers, oggetti in cartone piegato che riflettono sulle proprie sfaccettature le sfumature di colori che vi ho steso, creando complesse ma facilmente comprensibili interazioni cromatiche, il visitatore è in grado di osservare il comportamento di un colore mentre viaggia su un oggetto a orari differenti della giornata. Dopo questa esperienza immersiva, spero che le persone una volta tornate a casa percepiscano lo stesso effetto sulle proprie pareti bianche. Iniziando dal mattino quando la sua luce ricca di riflessi bluastri illumina gli oggetti della casa colorandoli di un fresco blu; è il momento della giornata in cui le tonalità sono più morbide, assumono colori pastello e spicca l’assenza del nero. A mezzogiorno ecco arrivare la luce gialla e intensa, che provoca contrasti e strutture vivaci, facendo percepire gli oggetti più verdi e rossastri. Al calare della sera, quando la luce è intrisa d’inquinamento atmosferico, il nero inizia a mescolarsi con le tonalità, rendendole più passive; le ombre proiettate prendono il sopravvento sulle forme degli oggetti, favorendo la nascita di un mondo mistico. Posso pertanto affermare che il mio obiettivo ultimo è quello di contrapporre il potere del colore al potere della forma.

Hella Jongerius nel suo Jongeriuslab Studio a Berlino © Roel van Tour

Hai affermato che il colore è una metafora della vita stessa. In che senso?

Tutti i giorni ci svegliamo e immediatamente vediamo le cose perché hanno un colore. Il colore tocca innumerevoli e differenti aspetti del design: parole, forme, materiali, spazi, luce. La soggettività di un’esperienza cromatica è importante, è diversa per ogni persona, per ogni superficie, forma e in condizioni di luce mutevoli. Questo rende il colore misterioso e mai uguale, regalando un’identità a una vita.

Cosa rende un colore bello? Ne hai uno che prediligi?

I colori belli per me sono quelli realizzati con pigmenti di alta qualità, che permettono di respirare con la luce, di assumere nuove tonalità in condizioni differenti. Quando mi si chiede qual è il mio colore preferito non sono in grado di sceglierne uno univoco. Si tratta di una domanda talmente complessa perché racchiude una miriade di variabili. Il mio colore preferito… Sì, ma per quale oggetto? Sotto quale luce? Per quale materiale? Su quale superficie? E dove nel mondo? 

Hai più volte ribadito di voler combattere l'”anoressia del colore” e la monotonia nel design industriale. In che modo?

Confrontiamo ad esempio l’offerta di pigmenti e vernici dell’industria del design con quella dei prodotti dell’industria alimentare. Nel mercato del cibo molte cose stanno cambiando: sempre più consumatori evitano di acquistare alimenti industriali che contengono troppo zucchero, altri prediligono l’assunzione di prodotti bio, altri ancora quelli privi di glutine, e via discorrendo. Sempre più numerose sono le critiche rivolte all’industria alimentare. Purtroppo non vedo un simile atteggiamento verso l’industria del colore, e sono stupita che la maggior parte dei suoi clienti sembra soddisfatta dell’offerta esistente. Personalmente tendo a rivolgermi a piccole aziende che producono vernici artigianali, che lavorano con formule a più strati e con pigmenti più interessanti. È in questi peculiari contesti che trovo i colori più stimolanti per i miei progetti.

Breathing Colour – Gewerbemuseum Winterthur © Bernd Grundmann

Quali sono le qualità essenziali di un buon design industriale e come è possibile portare quel valore aggiunto, rappresentato da qualità e artigianalità, nei prodotti realizzati in serie?

Per rispondere a questa domanda farei riferimento ad alcuni argomenti trattati nel manifesto Beyond the Newche ho redatto con la psicologa e teorica dell’arte Louise Schouwenberg, e presentato nel 2015 alla Milano Design Week. Parto dal concetto che il design non riguarda tanto i prodotti ma soprattutto le relazioni. Per comunicare con i suoi utilizzatori finali, un buon design può svilupparsi, quasi invisibilmente, su diversi piani di significato. Quando queste opportunità non vengono sfruttate al massimo ecco prendere il sopravvento la sua mancanza d’immaginazione. I prodotti d’uso quotidiano sono guardati e maneggiati senza sosta. Le qualità tattili ed espressive dei materiali sono fondamentali mezzi di comunicazione, che richiedono un processo di design pratico e un’intensa esplorazione delle texture destinate alla scala di percezione umana. La particolare posizione dei designer, che si colloca tra produttori e consumatori, dà loro l’opportunità di poter prendere quell’iniziativa finalizzata al necessario cambiamento di mentalità. Possono prendere sul serio i consumatori aiutandoli a guardare con occhi nuovi il mondo degli oggetti, sfidandoli ad apprezzare i significati annessi, i dettagli e le tracce di una grande varietà di tecniche di produzione. Possono attirare l’attenzione dell’industria sull’importanza di un migliore equilibrio fra l’alta qualità, la sfrenata creatività, l’entusiasta sperimentazione, la responsabilità sociale e i fattori economici. Eppure raramente lo fanno.

Breathing Colour – Gewerbemuseum Winterthur © Bernd Grundmann

Nel 2008 hai lasciato Rotterdam, la tua città, per Berlino dove hai trasferito Jongeriuslab, il tuo studio-laboratorio. Perché questa scelta così radicale?

Dopo aver gestito uno studio per dieci anni, mi sono resa conto d’aver creato un luogo che non mi corrispondeva più. Troppi dipendenti, troppi clienti, troppo rumore di sottofondo. Avrei potuto continuare con successo per altri anni, ma nulla sarebbe cambiato. C’era qualcosa che non andava. Lo sentivo intuitivamente. E del mio intuito, che conosco alla perfezione, mi fido ciecamente. La soluzione è stata la distanza. Letteralmente. Ho chiuso lo studio di Rotterdam e sono partita per Berlino, città che non conoscevo. All’inizio ho lavorato completamente in solitudine. Col senno di poi, posso affermare che questa è stata una delle mie migliori decisioni. Amo Berlino perché non ha una scena di design internazionale degna di nota. Vi lavoro con tranquillità. Qui sono riuscita a creare una nuova struttura e ora tutto si adatta alla perfezione.

Con la tua produzione hai esplorato la moda, l’arredamento d’interni, l’illuminotecnica, la tessitura, la ceramica, la falegnameria… Come riesci ad affrontare progetti così eclettici?

Probabilmente perché mi annoio velocemente e perché sono molto impaziente. Garantendomi un così ampio raggio d’azione, sono sicura di rimanere desta e attenta alle novità. Inoltre l’esperienza acquisita in così differenti settori contribuisce in maniera continuativa a fecondare le mie conoscenze e idee.

Breathing Colour – Design Museum London © Luke Hayes

Come speri d’influenzare le attività che ruotano attorno al design industriale per renderlo più responsabile e sostenibile dal punto di vista ambientale?

Da quando ho iniziato questa professione il mio principale obiettivo è stato quello di mettere in discussione il mio stesso ruolo. È iniziato con il tema dell’imperfezione all’interno di un processo industriale, una novità un quarto di secolo fa. Il movimento artigianale all’interno della nostra professione, visto spesso come un semplice esercizio di stile, ha dibattuto temi come l’autenticità, l’uso dei materiali e i metodi di produzione. Dopo aver redatto Beyond the New, la mia moralità e la mia responsabilità come designer hanno assunto un ruolo sempre più rilevante. Ho cercato di educare il pubblico iniziando a esporre alcune mostre che ruotavano attorno alle mie ricerche. Negli ultimi anni ho notato che tutti, design business compreso, si sono improvvisamente resi conto del bisogno di un sistema produttivo che si prendesse cura del nostro pianeta. Ritengo sia un grande passo avanti! Credo che l’industria del design, e spero anche la politica, abbia raggiunto la consapevolezza dell’esigenza di un motivo più che valido prima di progettare e produrre qualcosa di nuovo. Al contempo mi auguro che i consumatori smettano di fare acquisti senza senso: abbiamo cose molto più importanti di cui occuparci.

Breathing Colour – Gewerbemuseum Winterthur © Bernd Grundmann

A quale progetto stai attualmente lavorando?

S’intitola Woven Cosmos, ed è una mostra che verrà inaugurata a fine aprile nei prestigiosi spazi del Gropius Bau di Berlino. È l’occasione per presentare la mia ricerca su come ci relazioniamo con gli oggetti, e su come questi possano guarirci. Il progetto espositivo s’intreccia con la storia dell’edificio che mi ospita, costruito nel 1881 per ospitare il Museo di Arti e Mestieri, glorioso luogo d’incontro tra arte e artigianato. Qualche settimana fa vi ho trasferito una parte del mio studio Jongeriuslab, così da poter produrre le nuove opere direttamente sul posto.

Hai un sogno nel cassetto in cui vorresti essere coinvolta?

Rendere disponibili in quantità ingenti quei materiali utili a un’economia circolare e durevole, in modo da poter eliminare tutti quelli di origine fossile ancora oggi impiegati nel processo produttivo.

Il trailer della mostra

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Jongeriuslab  WEB Instagram Facebook Vimeo

Immagine di copertina: Hella Jongerius nel suo Jongeriuslab Studio a Berlino © Roel van Tour Tutte le immagini: Courtesy Gewerbemuseum Winterthur e Jongeriuslab Si ringrazia per la collaborazione: Siska Diddens, Luzia David e Christopher Hux

ZÜRI-swissness Instagram gallery: L’incertain regard

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