Il diario di Robert Frank

Grazie al suo approccio radicalmente innovativo ha rivoluzionato i canoni e gli stilemi della fotografia della seconda metà del Novecento, cambiando il mondo del foto giornalismo. A Robert Frank e ai suoi stupendi e irripetibili scatti, che racchiudono attimi di vita quotidiana come frammenti di storia, è dedicata Memories. Un’imperdibile mostra organizzata dalla Fotostiftung Schweiz di Winterthur. Me ne parla il curatore, Martin Gasser

Zurighese di nascita, venuto a mancare lo scorso anno, Robert Frank è riconosciuto come uno dei fotografi più significativi dei nostri tempi. Come nessun altro, ha ampliato i confini della fotografia nel corso dei decenni e ne ha esplorato il potenziale narrativo. Il suo libro The Americans, pubblicato nel 1958, è probabilmente l’album di fotografie più significativo del ventesimo secolo. Come una specie di roadmovie fotografico, tratteggia un profilo tetro di una società che all’epoca impressionò l’America intera. Da quel momento la fotografia mondiale non fu più la stessa. Composizioni off-kilter, figure tagliate e movimenti sfumati segnano un nuovo stile fotografico che oscilla tra documentazione e narrazione, tutt’ora tra i più imitati di sempre. Robert Frank fu sostanzialmente il primo vero street photographer della storia. Eppure The Americans non è stato un colpo di genio spontaneo. Già nelle opere giovanili si scorgono anticipazioni e storie secondarie in stretto legame con i temi e le immagini del suo leggendario libro. La Fotostiftung Schweiz, la Fondazione Svizzera per la Fotografia che col dirimpettaio Fotomuseum Winterthur costituisce il più importante polo museale fotografico elvetico, dispone di una collezione di lavori poco noti, molti dei quali donazioni dell’artista, in cui si può seguire il consolidamento dello stile soggettivo di Frank. Al centro dell’esposizione Robert Frank – Memories, in mostra fino all’11 gennaio 2021 e accompagnata da una presentazione dei libri che l’editore Gerhard Steidl ha realizzato con Robert Frank nell’arco di oltre 15 anni, c’è la forza narrativa di un linguaggio fotografico sviluppatosi contro tutte le convenzioni e vedendosi riconosciuto a livello internazionale quando il fotografo si era già congedato dalla fotografia per dedicarsi al media cinematografico. Ho incontrato Martin Gasser, curatore di una mostra più unica che rara.

Martin Gasser @ Fausto Colombo

Cosa rende Robert Frank una leggenda?

Difficile rispondere. Per semplificare circoscriverei la domanda al contesto di questa particolare mostra dedicata al lavoro che realizzò in America all’inizio degli anni Cinquanta. In primo luogo, ha scoperto situazioni, stati d’animo e caratteristiche del popolo americano mai presentati prima. Da outsider e straniero è riuscito a guardare all’America in modo totalmente differente, cercando di esplorarne parti meno conosciute, facendo tappa in luoghi dove nessuno si sarebbe solitamente fermato. Evitando luoghi turistici e monumenti famosi, scoprì un’America che non sempre era quella terra di promesse, di futuro, abitata da cittadini felici e liberi di poter fare quello che volevano, come la gente immaginava. Ne fotografò invece il lato oscuro e questo fu totalmente nuovo e scioccante. In secondo luogo, capovolse l’estetica consolidata della fotografia dell’epoca. Fece tutto ciò che non era permesso. Realizzava stampe molto scure, usava angolazioni oblique, tagliava la testa alla gente, sceglieva soggetti che la maggior parte dei fotografi non avrebbe mai pensato di usare. Come si è scoperto poi, la sequenza delle sue “banali” fotografie, scattate con un’angolazione speciale, era in realtà molto potente. Questa efficace espressione che attraversa l’intero libro The Americans, una delle sue opere più importanti, è il motivo per cui oggi è considerato una leggenda. 

Quali sono le qualità e le tecniche speciali che sono associate al lavoro di Robert Frank?

Oltre alla caratteristiche che ho citato a proposito di The Americans, la mostra è incentrata sul suo sviluppo professionale che ha preceduto quel lavoro. Inizia a essere un fotografo molto preciso, sperimentando poi tecniche meno convenzionali nell’uso della macchina fotografica, che gli hanno permesso una maggiore libertà d’espressione. Ha utilizzato l’apparecchio fotografico come mezzo per scoprire il mondo e per crearne una visione nuova, piuttosto che per scattare una fotografia “di” qualcosa nel mondo. Un approccio per l’epoca decisamente rivoluzionario.

Robert Frank, Landsgemeinde, Hundwil 1949 © Andrea Frank Foundation; courtesy Pace/MacGill Gallery, New York

Da dove è nata l’idea di creare una mostra basata esclusivamente sul suo lavoro meno conosciuto rispetto a quello raccontato in The Americans?

La Fotostiftung Schweiz ha un rapporto di lunga data con Robert Frank: abbiamo seguito la sua carriera per molto tempo e abbiamo raccolto le fotografie che ci ha affidato in gran quantità. Il nostro interesse si è sempre basato sul suo rapporto con la Svizzera. Unici a disporre di materiale fotografico scattato in Svizzera prima del suo viaggio negli Stati Uniti, è diventata palese la possibilità, e necessità, di organizzare una mostra incentrata su questo particolare periodo della sua vita. La risposta ottenuta da pubblico e critica ha dimostrato il valore di questa operazione, intenta a colmare una lacuna conoscitiva.

Qual è l’origine del titolo Memories?

Questa mostra itinerante fu inaugurata in occasione dei Rencontres de la photographie di Arles nell’estate 2018; la intitolammo Sidelines poiché volevamo mostrare come la traiettoria di Robert Frank verso le sue opere americane non fosse una linea retta, ma piuttosto una serie di deviazioni e sperimentazioni che hanno portato al lento sviluppo del suo stile e della sua visione personale. La seconda tappa ebbe luogo al c/o di Berlino esattamente un anno fa; intitolandola Unseen volevamo sottolineare che molte delle fotografie presentate non fossero mai state pubblicate o viste dal pubblico. L’attuale titolo è stato scelto perché Robert Frank non è più in vita e l’opera esposta ne rappresenta quindi un ricordo. Frank si riferiva spesso alle sue fotografie come a dei ricordi. Non è un caso che abbia voluto utilizzare la parola “memories” per sottotitolare Good Days Quiet il suo ultimo libro pubblicato da Gerhard Steidl.

Robert Frank, White Tower, New York 1948 © Andrea Frank Foundation; courtesy Pace/MacGill Gallery, New York

Quali sono a tuo avviso le immagini più interessanti esposte?

Ce ne sono molte che amo. Ogni volta che vedo queste fotografie mi commuovo: esprimono una qualità emotiva senza eguali. Non sono molti i fotografi che vantano lavori che possono essere visti in continuazione. Le immagini sono molto “aperte”: non cercano di insegnarti nulla e ogni volta che le guardi ti permettono di fare sempre nuove associazioni. Mi piace particolarmente la fotografia di una sedia con un tronco d’albero accanto scattata a Parigi: sollevando il quesito su cosa abbiano in comune questi due oggetti così differenti tra loro, crea una composizione simile al surrealismo oltre a suscitare possibili altre connessioni emotive su cui lo spettatore può riflettere. Ogni volta che la osservo ci vedo sempre qualcosa di differente. Suggerisco a tutti di dare personalmente un’occhiata alle immagini e giungere alle proprie conclusioni. Le fotografie di Robert Frank offrono la possibilità di sentire qualcosa, invece d’imparare qualcosa.

Cosa speri che lo spettatore porti con sé dopo aver visitato la mostra?

Spero che coloro che già conoscono il lavoro di Robert Frank possano apprezzare il suo approccio con la fotografia, quando iniziò a occuparsi solo delle basi: scattare una foto, fare una stampa, realizzare un ingrandimento… Ma anche essere incuriositi di come Frank si sia reso conto che la fotografia vadi oltre l’aspetto tecnico, trasformandosi in un mezzo d’espressione capace di smuovere, emotivamente, il mondo. È stato all’avanguardia, per il periodo in cui ha vissuto. Oggi tutti scattano foto e a nessuno importa dei milioni di immagini generate. Lui è riuscito con 83 fotografie a commuovere il mondo, modificando non solo la storia della fotografia ma anche il modo in cui le persone guardavano all’America. Immagini tuttora attuali: quello che ci mostrano è ancora vero e ciò è straordinario. Spero che il visitatore di questa mostra avverta questa sensazione e se la porti a casa con sé. 

Robert Frank, Parade – Hoboken, New Jersey, 1955 © Andrea Frank Foundation; courtesy Pace/MacGill Gallery, New York

A pochi passi da qui il Fotomuseum Winterthur espone Street. Life. Photography, una monumentale mostra che ripercorre sette decadi di street photography. Pensi che Robert Frank possa essere considerato il primo fotografo di strada?

Non lo è sicuramente, innanzi tutto per motivi cronologici. L’idea della fotografia di strada risale al diciannovesimo secolo, quando divennero disponibili macchine fotografiche più piccole e pellicole con tempi di esposizione più brevi, rendendo possibile la fotografia di oggetti in movimento all’esterno. Una novità resa possibile dall’evoluzione della tecnologia, avvenuta molti anni prima di Robert Frank. Questo tipo di soggetto, la vita per strada, ebbe particolare diffusione anche nella pittura dell’epoca. Ma cos’è veramente la fotografia di strada? Solo quando è scattata per l’appunto in strada? E se fosse scattata su di un treno come la dovemmo chiamare? Frank realizzava fotografie istantanee in spazi pubblici, quindi in un certo senso può anche essere considerato uno street photographer, ma non si definiva tale. Non a caso rifiutò di partecipare al progetto di un libro dedicato alla street photography, realizzato da Colin Westerbeck, curatore, scrittore e insegnate di storia della fotografia. A Robert Frank non piacevano le etichette. 

Robert Frank, New York City, 1948 © Andrea Frank Foundation; courtesy Pace/MacGill Gallery, New York

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Immagine di copertina: Robert Frank, Paris, 1952 © Andrea Frank Foundation; courtesy Pace/MacGill Gallery, New York. Tutte le immagini: Courtesy Fotostiftung Schweiz. Si ringrazia per la collaborazione: Sascha Renner e Christopher Hux

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