Sono donne che fotografano le guerre degli uomini. Sempre in prima linea per fermare lo scatto che può raccontare la Storia. Con coraggio, sensibilità e professionalità ci aiutano a capire e a non dimenticare. Il Fotomuseum di Winterthur presenta “Women War Photographers: da Lee Miller a Anja Niedringhaus”, una mostra dedicata a otto donne, “armate” solo della loro macchina fotografica. Fra loro anche Carolyn Cole, a cui abbiamo rivolto alcune domande
Il fotogiornalismo, in particolare la fotografia di guerra e poi il reportage dalle aree di conflitto, è generalmente associato ad alcune figure divenute ormai storiche. Un nome su tutti? Robert Capa, famoso sia per aver documentato cinque diversi scenari bellici, che per aver fondato l’altrettanto conosciuta agenzia Magnum Photos. Ma contrariamente all’idea diffusa che la fotografia di guerra sia una prerogativa esclusivamente maschile, esiste una lunga storia di donne fotografe inviate in zone di conflitti. Proprio come i loro colleghi maschi, hanno documentato le crisi in tutto il mondo e hanno avuto un ruolo decisivo nel plasmare la nostra immagine della guerra. Le loro sono fotografie che includono scorci intimi della vita quotidiana in tempo di guerra e rappresentano la prova di atrocità scioccanti ma anche di segni di speranza. Sono donne moderne dallo spirito combattivo, donne avventuriere dai grandi ideali e dalla decisa militanza politica, donne che hanno fatto della macchina fotografica uno strumento artistico e culturale in grado di esprimere bellezza, tragedia, politica e profonda umanità.
Lee Miller, Bambini senza casa, Budapest, Hungary, 1946. © Lee Miller Archives, England 2019. All rights reserved. leemiller.co.uk
Curata da Anne-Marie Beckmann e Felicity Korn, e adattata da Nadine Wietlisbach per il Fotomuseum Winterthur, che la espone fino al 24 maggio 2020, la mostra è dedicata alla copertura fotogiornalistica di guerre e conflitti internazionali. In mostra sono esposte circa 140 immagini, scattate tra il 1936 e il 2011 da otto fotogiornaliste e fotografe documentariste: Gerda Taro, Lee Miller, Catherine Leroy, Françoise Demulder, Anja Niedringhaus, Christine Spengler, Susan Meiselas e Carolyn Cole. Immagini che offrono non solo una visione frammentaria della complessa realtà della guerra, ma presentano anche altrettanti modi di affrontare i combattimenti e i loro effetti: dal tradizionale reportage di guerra e dal fotogiornalismo “embedded”, fino agli approcci innovativi della fotografia sociale documentaria. Prendendo in considerazione una serie di teatri militari che vanno dalla guerra civile spagnola, alla seconda guerra mondiale e alla guerra del Vietnam fino ai più recenti conflitti internazionali nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq e in Libia, viene sfatata l’idea comune che la fotografia di guerra sia un mondo professionale interamente popolato da uomini. Anche se le strategie di messa in scena e di narrazione delle fotografe non differiscono in alcun modo fondamentale da quelle dei loro colleghi uomini, le donne hanno dovuto ripetutamente ritagliarsi la loro posizione in prima linea e operare al di fuori delle strutture previste per loro. D’altra parte, in alcune regioni e in alcuni ambienti culturali, il loro genere ha dato loro anche dei privilegi negati ai colleghi maschi, garantendo loro l’accesso alle famiglie e alle persone colpite dal conflitto. Scattate nell’arco di quasi un secolo, queste immagini testimoniano anche l’evoluzione del fotogiornalismo come professione, soprattutto se considerate nel contesto di un panorama mediatico in costante mutamento e che sta tutt’ora subendo un radicale sconvolgimento con l’avvento della rivoluzione digitale. La scelta di strategie visive e narrative da parte dei fotografi è il risultato di una ricerca continua, con l’intento di testimoniare realtà inimmaginabili, di emozionare gli spettatori, di sensibilizzarli alle complesse circostanze geo-politiche e socio-politiche delle zone di combattimento e, in ultima analisi, di influenzare gli atteggiamenti e le azioni delle persone rendendo queste situazioni visibili.
Gerda Taro, Un membro della milizia repubblicana che si addestra sulla spiaggia fuori Barcellona, Spagna, Agosto 1936. © International Center of Photography, New York
Nelle sue immagini della guerra civile spagnola, la fotografa ebrea tedesca Gerda Taro (1910-1937) si è schierata con l’agenda politica dei repubblicani. Taro fu la prima fotografa di guerra donna ad essere uccisa sul campo: la sua tragica morte nel 1937, a soli ventisei anni, attirò l’attenzione internazionale. Tuttavia, poco tempo dopo è svanita nell’oblio, poiché le agenzie fotografiche hanno sempre più accreditato le sue fotografie al suo partner Robert Capa.
Come corrispondente della rivista di moda Vogue, la fotografa americana Lee Miller (1907-1977) iniziò a documentare la spinta alleata contro il Reich tedesco. Inizialmente incaricata di scattare fotografie in un ospedale militare, a causa di un diguido nelle comunicazioni militari, la Miller si trovò in prima linea, facendo poi anche parte del gruppo di fotogiornalisti che ha assistette in prima persona alla liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald.
Uno dei più noti fotogiornalisti della guerra del Vietnam è la fotografa francese Catherine Leroy (1944-2006). Le sue immagini danno una chiara indicazione della libertà di movimento di cui godeva in prima linea, dove fotografava il conflitto sia dall’alto che dal basso, creando spesso brevi sequenze di immagini che mostravano una particolare catena di eventi e pubblicate poi a tutta pagina da riviste come Paris Match e Life.
Françoise Demulder (1947-2008) iniziò la sua carriera in Vietnam, dove nel 1975, dopo che la maggior parte dei giornalisti stranieri aveva già lasciato il paese, scattò foto esclusive delle truppe nord vietnamite che invasero Saigon. La Demulder rivolse anche la sua attenzione verso le azioni militari e il loro impatto sulla popolazione civile.
Anja Niedringhaus, Un ragazzo afgano impugna una pistola giocattolo mentre si gode un giro in giostra per festeggiare la fine del Ramadan, Kabul, Afghanistan, Settembre 2009. © picture alliance / AP Images
Fu negli anni Novanta che la fotografa tedesca Anja Niedringhaus (1965-2014) iniziò a lavorare in zone di guerra e di crisi,l che vanno dai Balcani all’Iraq, dall’Afghanistan alla Libia, dedicando particolare attenzione alla popolazione civile, di cui ha documentato le condizioni di vita. Come giornalista “embedded”, accompagnava i soldati nelle operazioni, raccontando da vicino il loro dispiegamento nelle diverse zone di combattimento. Il 4 aprile 2014, la Niedringhaus fu uccisa all’interno di una base utilizzata dalle forze di sicurezza nella provincia di Khost durante la copertura delle elezioni in Afghanistan.
Christine Spengler, nata nel 1945 in Alsazia, ha scattato le sue prime fotografie durante un combattimento armato in Ciad. Più tardi, negli anni Settanta, ha iniziato a documentare una serie di conflitti e crisi in diverse parti del mondo, tra cui il Vietnam, la Cambogia, l’Iran, il Sahara occidentale e il Libano. Particolari soggetti delle sue fotografie sono le vite quotidiane di donne e bambini dietro le linee del fronte.
Come fotografa indipendente, l’americana Susan Meiselas, classe 1948, ha documentato la rivolta sandinista contro il regime di Somoza in Nicaragua alla fine degli anni Settanta. La sua foto dell’Uomo Molotov è diventata un’immagine di culto ed è ancora oggi in circolazione come simbolo di protesta usato nei contesti più disparati. Meiselas, che sarebbe diventata una fotografa Magnum, ha scelto il colore come mezzo per il suo lavoro documentario in un periodo in cui il suo uso era principalmente limitato a progetti commerciali. Il suo libro Nicaragua è una delle prime pubblicazioni a colori che documentano la guerra.
Anche la cinquantottenne americana Carolyn Cole, che lavora per il Los Angeles Times dal 1994, scatta foto a colori. Ha lavorato come fotoreporter nella guerra del Kosovo, in Afghanistan, in Liberia e in Iraq. Le sue fotografie, utilizzate ancora oggi sia sulla carta stampata che sui media online, rivelano un approccio contemporaneo alla fotografia di guerra che è un riflesso tanto dei cambiamenti tecnici all’interno della professione.
Ritratto di Carolyn Cole © James T. Murray
Come sei diventata fotogiornalista?
Ho iniziato come fotografa di cronaca per piccoli giornali locali. Il primo aveva sede a El Paso, in Texas, proprio al confine con il Messico. Ciò mi ha permesso molto precocemente, di coprire storie di rilevanza internazionale che “attraversavano” il confine. A quel tempo, a causa dei molti conflitti politici in corso ho realizzato vari reportage in America centrale e meridionale. È stato circa 15 anni dopo l’inizio della mia carriera che sono cominciate le guerre in Afghanistan e in Iraq.
La scelta di questa professione deriva da un tuo personale interesse verso la politica?
Non all’inizio, almeno. I miei genitori non parlavano mai di politica in casa. E i miei primi scatti fotografici documentavano esclusivamente notizie di cronaca locale. È stato solo quando ho cominciato a lavorare per giornali molto più importanti, arrivando infine al Los Angeles Times, che ho avuto l’occasione per viaggiare e recarmi all’estero. Una delle prime crisi internazionali di cui mi sono occupata sono stati i bombardamenti dell’ONU in Kosovo. Poi si sono susseguiti Haiti, l’Afghanistan e l’Iraq. Credo che il mio interesse verso la politica sia nato proprio qui. Prima che iniziassero i bombardamenti, noi giornalisti americani eravamo in pochissimi a Baghdad. Poi durante il conflitto abbiamo coperto entrambi i fronti del conflitto.. È stata una situazione davvero unica.
Puoi raccontarci il processo produttivo che sta dietro un tuo scatto?
L’accesso è davvero fondamentale. La maggior parte delle situazioni che ho documentato era davvero difficili da raggiungere. Per cui possiamo dire che metà della “battaglia” era in realtà arrivare al conflitto ed essere nella posizione giusta al momento giusto. Anche per questo motivo, sapendo che la guerra stava arrivando, ma non esattamente quando, mi sono recata in Iraq tre mesi prima dell’inizio della guerra. Anche le immagini dalla Liberia sono state scattate con difficoltà. Si era al culmine della loro guerra civile e tutti i giornalisti furono evacuati dalla regione. Solo una decina di noi rimasero lì al momento in cui quelle immagini furono realizzate. Tutte le mie foto destinate al giornale sono state scattate quotidianamente. Uscivo la mattina presto e lavoravo tutto il giorno fino a notte fonda. Al termine della giornata lavorativa mettevo in ordine le circa 400 immagini scattate, scegliendone poi 10-15 che rappresentassero al meglio le notizie del giorno. In quel periodo la fotografia digitale non era così semplice da utilizzare e i telefoni satellitari non erano sempre disponibili. Questo è il motivo per cui a quei tempi era necessario disporre di giornalisti internazionali per coprire questo genere di eventi, difficili da raggiungere e conseguentemente molto costosi da raccontare.
Carolyn Cole, Un’immagine di Saddam Hussein, crivellata di fori di proiettile, è ricoperta di vernice da Salem Yuel. I simboli del leader sono scomparsi rapidamente in tutta Baghdad subito dopo l’arrivo delle truppe americane in città e l’assunzione del controllo, Baghdad, Iraq, Aprile 2003. © Carolyn Cole / Los Angeles Times
Quindi avevi la libertà di andare dove volevi?
Sì, ma ovviamente avevo un po’ di paura e ho conseguentemente preso delle precauzioni. Fondamentalmente avevo il sostegno del giornale e la relativa sicurezza che qualcuno sarebbe venuto a cercarmi nel caso fossi improvvisamente scomparsa…
Come riesci a mantenere la distanza col soggetto da fotografare?
In realtà non prendo particolari distanze dai miei soggetti e dagli eventi, cerco piuttosto di arrivarci dentro. Nelle situazioni di crisi le persone coinvolte sono consapevoli della mia presenza e mi “utilizzano” per far sapere al mondo la drammatica situazione in cui si trovano e per richiedere aiuto. Solitamente la mia presenza è accettata abbastanza rapidamente. Non trascorro molto tempo con le persone che fotografo, si tratta di un incontro veloce. Col tempo ho sviluppato quel sesto senso che mi permette di capire immediatamente se la persona vuole o meno essere fotografata. Nelle mie immagini cerco le componenti fondamentali di una buona fotografia: la composizione, l’illuminazione, il colore e soprattutto i contenuti per le notizie. Rispondendo sempre a una domanda basilare: “perché è così importante per me creare questa immagine?” Le immagini sono di solito composte a grandezza naturale: non ci sono molti ritagli in post produzione. A volte appaiono un po’ storte e solitamente non contengono dettagli estranei al soggetto principale. Immagino che questo rappresenti uno stile più “americano” del fotogiornalismo. Può essere fuori moda di questi giorni, ma è ancora quello che sto attualmente utilizzando.
Carolyn Cole, Il viso di un marine americano coperto da colori mimetici durante la battaglia di Najaf, in Iraq, dove le forze americane hanno passato settimane a bombardare e a combattere per raggiungere il sacro santuario dell’Imam Ali, prima di negoziare la fine dei combattimenti, Najaf, Iraq, Agosto 2004. © Carolyn Cole / Los Angeles Times
Cosa non hai potuto fotografare a causa della censura americana?
Gli Stati Uniti proibiscono ai giornalisti di fotografare gli americani morti in combattimento, anche se il cadavere non è più visibile perché già chiuso nel sacco nero. Questo aspetto degli interi conflitti in Afghanistan e Iraqq è stato il più problematico da documentare. Probabilmente è una reazione alla guerra del Vietnam, quando non c’era alcun tipo di restrizioni alla documentazione fotogiornalistica.
I soggetti delle tue fotografie sono ora cambiati e recentemente ha dichiarato che la questione ambientale è il problema di cui dobbiamo occuparci.
Credo che i giornalisti della mia generazione siano stati in qualche modo “distratti” dagli innumerevoli conflitti che si sono succeduti negli ultimi 20 anni, avendo per così dire deluso il mondo per non aver adeguatamente documentato ciò che stava accadendo alll’ambiente. Per questo motivo sto dedicando il resto della mia carriera alla copertura di questioni ambientali, in particolare quelle relative agli oceani. L’anno scorso mi sono recato due volte alle Isole Marshall per fotografare l’eredità dei test nucleari effettuati dagli Stati Uniti. Gli isolani che abbiamo sfrattato negli anni Quaranta e Cinquanta sono tutt’ora considerati dei rifugiati. Quest’anno coprirò la migrazione delle balene grigie al largo della costa del Pacifico, dove un gran numero di esse si sta arenando per ragioni ancora sconosciute. Interessata più a questi temi, non significa però che le questioni legate alla guerra siano meno importanti. Ma ora, grazie all’accesso a internet e agli smartphone, la popolazione locale può documentare la propria situazione in prima persona, senza doversi affidare ai giornalisti internazionali nella stessa misura di un tempo. (Intervista raccolta durante la presentazione della mostra alla stampa il 28.02.2020)
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Immagine di copertina: Susan Meiselas, Maschera di danza tradizionale indiana della città di Monimbó, adottata dai ribelli per nascondere la loro l’identità durante la lotta contro Somoza, Nicaragua, 1978. © Susan Meiselas / Magnum Photos
Tutte le immagini: Courtesy Fotomuseum Winterthur
Si ringrazia per la collaborazione: Julia Sumi (Fotomuseum Winterthur) e Christopher Hux