È italiano, lavora con le grandi star e fa cinema americano meglio degli americani. Lui è Andrea Di Stefano e domani esce nei cinema zurighesi il suo The Informer, un film adrenalinico che lascia col fiato sospeso dal primo all’ultimo fotogramma. L’ho incontrato al 15° Zurich Film Festival, dove ha presentato fuori concorso la sua seconda prova da regista. Mostrando dietro la macchina da presa tutta la maestria e la disinvoltura dei più grandi. Ancor meglio, se proiettata su grande schermo
Capelli rasati, un cappello a falda larga e un gilet verde militare su un’attillata maglietta scura. È con questa aria da duro, squagliatasi subito dopo una calorosa stretta di mano, che il cineasta romano mi ha accolto poche ore prima di calcare il green carpet del festival zurighese. Per questo 46enne, una carriera attivissima come attore in film come Il principe di Homburg di Marco Bellocchio, In guerra per amore di Pif e Vita di Pi di Ang Lee, solo per citarne alcuni, è arrivato il momento di gustarsi il successo internazionale, di confrontarsi coi grandi nomi dello star-system e di sognare di tornare in Italia a dirigere un film con le maestranze del nostro cinema. Il Zurich Film Festival lo ha invitato un paio di mesi fa per presentare, nella prestigiosa sezione “Gala Premieres”, The Informer, un action-movie tratto da Tre secondi, il romanzo scritto dieci anni fa dagli svedesi Börge Hellström e Anders Roslund, che racconta la storia di Peter Koslow, un ex soldato specializzato in operazioni speciali che lavora come informatore per l’FBI per smantellare il traffico di droga della mafia polacca a New York.
Alla sua seconda regia Andrea Di Stefano è arrivato grazie alla fama conquistata sul campo con Escobar: Paradise Lost, in cui ha saputo ritrarre la sfaccettata personalità del criminale colombiano. Anche per questa sua opera seconda il regista si mantiene in territori ruvidi e oltre i confini della legge tradizionale. Mettendo assieme un cast di tutto rispetto: nei panni del protagonista c’è il Joel Kinnaman di Suicide Squad e della serie televisiva The Killing, in quelli di sua moglie la lanciatissima attrice cubana Ana de Armas, nei ruoli degli agenti FBI gli inglesi Rosamund Pike e Clive Owen, mentre il rapper e attore Common interpreta il detective della polizia newyorkese. Thriller poliziesco che si rifà in modo alle atmosfere dei crime movies anni Settanta, come Il braccio violento della legge o Serpico, The Informer è soprattutto un omaggio al filone carcerario e in particolare a pellicole come Brubaker. Due generi che coesistono in modo equilibrato, grazie a una robusta sceneggiatura e a una regia in grado di regalare intensi cambi di ritmo. Il risultato è un thriller distante dai cliché hollywoodiani, con personaggi non scontati, dove la tensione e l’incertezza inseguono costantemente lo spettatore.
Joel Kinnaman in un fotogramma del film
Come mai hai scelto di adattare il thriller Tre secondi, sei forse un appassionato di gialli scandinavi?
È stato un puro caso. Il copione, tratto dal best seller del duo svedese, era uno dei tanti che ho ricevuto dopo aver diretto Escobar: Paradise Lost. Inoltre la prima stesura era stata già scritta dagli sceneggiatori Matt Cook e Rowan Joffew, per cui posso tranquillamente affermare di essere arrivato a metà dell’opera. La storia di base era incentrata sul rapporto tra un informatore e un agente dell’FBI, una dinamica che mi ha immediatamente affascinato. Ho contattato allora alcuni ex agenti della DEA con cui avevo collaborato all’epoca di Escobarfacendomi raccontare le loro esperienze, di come nascono legami di amicizia e di come gli informatori devono essere protetti. Sono partito da questi punti di riferimento per riscrivere l’intero copione che poi è diventato The Informer.
Avevi già in mente il casting mentre scrivevi la sceneggiatura?
Nella proposta iniziale era presente solo Rosamund Pike che aveva già firmato per interpretare il ruolo dell’agente FBI Erica Wilcox. Terminata la prima stesura della sceneggiatura abbiamo iniziato a interpellare i vari attori. Ho dovuto riscrivere le parti approfondendo ogni singolo ruolo affinché diventassero appetibili per gli ottimi attori che volevo ingaggiare. Sono state necessarie diciassette versioni della sceneggiatura, che però alla fine ha permesso di riunire il fantastico cast che appare in cartellone.
Andrea Di Stefano dirige sul set Joel Kinnaman
Come è stato lavorare con così numerosi attori di talento riuniti in un’unica pellicola?
Ogni volta che lavoro con un bravo attore, vado in un brodo di giuggiole. Alla fine è ciò che più amo fare. Lavorare con gli attori è la cosa più bella che ci sia per me, sia come regista che come sceneggiatore. È stato sempre un piacere recarmi quotidianamente sul set e condividere con loro la giornata lavorativa.
Come dirigi gli attori? Prendi in considerazione le loro proposte sul set?
Adoro parlare con gli attori. La maggior parte delle volte l’istinto dell’attore è costruttivo. Anche perché l’attore ha una sensibilità immediata rispetto al testo e al materiale che va a raccontare. Avendo avuto il battesimo con Benicio Del Toro, che è una persona che arriva con molti dubbi sul set, ho imparato a non aver paura di quel tipo di creatività, ho imparato a respirarla e inglobarla. Ascolto i loro suggerimenti, ma al contempo so esattamente il modo in cui voglio che recitino. A volte però è necessario spingerli verso una direzione ben precisa. Quando il bisogno narrativo del film s’impone, è evidente che la scena non può essere né troppo lunga né troppo corta.
C’è qualche aneddoto dal set che ricordi con particolare piacere?
Abbiamo girato il film piuttosto velocemente, in 34 giorni per l’esattezza. Per cui è stata un’esperienza piuttosto intensa. Di aneddoti ne posso raccontare tanti, come ad esempio quando ho rischiato l’arresto per aver messo in pericolo la troupe mentre Rosamund Pike, in una scena girata sulla 5th Avenue, ha attraversato la strada fuori dalle strisce pedonali. Purtroppo non si può più girare a New York col realismo aggressivo tipico degli anni Settanta, oggi è tutto troppo regolamentato.
Clive Owen e Rosamunda Pike in una scena del film
Quanto è stato complicato girare un film in America?
La maggiore difficoltà è quella di avere a che fare con una struttura produttiva molto complessa che difficilmente permette alla tua creativa di esprimersi appieno. Sono però riuscito a vincere una battaglia molto personale imponendo un mio finale rispetto al classico happy ending previsto all’inizio. A livello produttivo non è stato un film costosissimo rispetto alla media del genere, anzi posso considerarlo quasi un film europeo. Proprio su questo set ho imparato che si può fare cinema che visto sullo schermo appare molto costoso ma che in realtà non lo è. Avendo lavorato sulle due sponde dell’Atlantico posso affermare che le maestranze italiane sono superiori a quelle statunitensi. All’estero nel migliore dei casi puoi ottenere un prodotto di estrema professionalità, in Italia i nostri artigiani ci aggiungono quel sentimento in più cha fa la differenza.
Nella tua lunga carriera d’attore sei stato diretto da grandi registi. Ce ne è qualcuno che ti ha particolarmente ispirato?
Mi è sempre piaciuto trascorrere le giornate sul set, anche quando non recitavo. Era un modo per osservare i registi al lavoro. Alla fine si ruba un po’ da tutti e da ognuno di loro ho imparato qualcosa. Ovviamente ce sono stati alcuni più importanti di altri, come Julian Schnabel, Damiano Damiani, Ang Lee e Renato De Maria.
Cosa escludi tassativamente dalle proposte di lavoro che ti vengono offerte?
Con ormai qualche capello bianco in testa, ho imparato a non escludere nulla. Perché ho imparato come la vita può sempre sorprenderti, ritrovandoti a fare cose che non avevi magari mai immaginato. Come realizzare film di genere, dirigendo attori famosi in produzioni americane. È una sfida che ho vinto con pochissima esperienza, e di ciò ne vado orgoglioso. Ora vorrei però prendere una pausa da tutto ciò, ascoltarmi maggiormente e sto riflettendo anche sulla possibilità di girare un film in Italia.
Joel Kinnaman e Common sul set mentre provano una scena
Cinema o televisione?
Sono un tradizionalista. Mi piace il tipo di narrazione visiva che solo il cinema riesce a proporre. Io vado al cinema per vedere i visi sette metri per quattro, i sorrisi cinque metri per tre, gli occhi due metri per uno, insomma voglio vedere le emozioni in quelle dimensioni. Tutto il resto è televisione, che comunque rimane una forma di espressione artistica e come tale va rispettata. Sento però dire sempre più spesso che cinema e televisione siano la stessa cosa. Non è vero, come non è vero che mele e arance sono la stessa cosa, nonostante siano due frutti diversi. L’esperienza che si prova nel vedere un film proiettato al cinema è tutt’altra cosa dal vedere lo stesso film sul televisore di casa.
Ci sono film contemporanei che sono in grado di emozionarti?
Tantissimi. Io mi emoziono molto al cinema. Vedo di tutto e mi abbandono alla narrazione. Dai registi asiatici a quelli americani, da quelli italiani a quelli francesi. È sempre interessante andare al cinema, a prescindere dal fatto che il film ti sia piaciuto. C’è sempre un ricordo che ti porti dietro, uscito dalla sala.
Qual è l’evento più importante che ha caratterizzato la tua vita professionale?
Forse l’aver incontrato all’inizio di carriera persone che mi hanno aiutato a comprendere determinate cose, che poi nel corso degli anni mi sono tornate utili, come linfa vitale.
Clive Owen, Rosamunda Pike e Joel Kinnaman in un fotogramma del film
Un motto o una frase che più ti rappresenta?
Shut up and dance. Nel mio caso: taci e lavora!
Un pregio e un difetto di Andrea Di Stefano.
Voglio controllare tutto e troppo, e quando questo atteggiamento si esprime in modo maniacale, può diventare un limite, soprattutto nella sfera professionale. Un pregio è il continuo entusiasmo che provo nell’imparare cose nuove dalle persone con cui lavoro.
Progetti futuri?
In questo momento sto lavorando ad una serie televisiva per Amazon Prime Video. Sarà ambientata nella Milano degli anni Ottanta e si muoverà tra il crime e la commedia. L’anno prossimo girerò invece un film in Polonia di cui ho già scritto la sceneggiatura. Si tratta della storia di Jan Karski, un eroe polacco che è stato il primo a entrare nel Ghetto di Varsavia nel 1942 e le cui investigazioni, presentate alla League of Nations lo stesso anno, hanno fatto scoprire al mondo cosa stava succedendo agli ebrei in Europa durante il nazismo.
La locandina del film
The Informer – La trama
Il film ha come protagonista Pete Koslow(Joel Kinnaman), ex cecchino delle Forze Speciali e affiliato alla mafia polacca di New York. Finito in passato in carcere a causa di una rissa, è da tempo confidente per la task force dell’FBI, comandata dall’alto dal gelido Agente Capo Montgomery (Clive Owen) e sul campo dall’Agente Erica Wilcox (Rosamund Pike), che gli garantiscono che se riuscirà a farli arrivare al capo della sua Famiglia, il Generale (Eugene Lipinski), lui e i suoi cari saranno finalmente liberi e potranno rifarsi una vita. Purtroppo però lo psicotico nipote del Generale, il giovane Stazek (Mateusz Kosciukiewicz), quando la trappola ordita da Pete sta per scattare, decide per una piccola “deviazione”, cioè vendere parte della loro droga sintetica a un certo Daniel Gomez(Arturo Castro). Questi è in realtà un poliziotto di New York sotto copertura, che incurante degli avvertimenti di Pete, si fa scoprire solo per essere freddato dal giovane mafioso. Koslow sarà costretto dal Generale a tornare nel carcere di Bale Hill, dove era stato in passato, e occuparsi dello spaccio di droga, per “sdebitarsi” verso l’Organizzazione. Anche l’FBI lo vuole al fresco, di modo da avere da lui i nomi dei detenuti e delle guardie coinvolte nel traffico del Generale, senza curarsi della sua vita. Ma non hanno tenuto conto della sete di vendetta dell’ex partner di Gomez, il Detective Grens (Common) e del fatto che Pete sarà pronto a tutto per rivedere la moglie Sofia (Ana de Armas) e la figlia.
Immagine di apertura: Courtesy Zürich Film Ferstival
Tutte le atre immagini: Courtesy TMDb.pro © 2019 Impuls Pictures AG
Si ringrazia per la collaborazione: Somera Boesch e Claudia Wintsch