Si definisce un fotografo nomade, che scatta istantanee vecchie di cent’anni. Accompagnato dall’iconica “Afghan box camera”, lo si trova ai più peculiari eventi culturali. Dove seduce gli avventori regalando indimenticabili momenti fotografici. In occasione di Schau!Werk 2019, il prossimo 8 e 9 novembre a Zurigo, ho incontrato Oliver Zenklusen nel suo atelier, “Les délices du chaos”. Un luogo suggestivo per rivivere il fascino emanato dalla camera oscura, dagli acidi e dai rullini
Ma la fotografia analogica non era morta e sepolta? C’è mancato poco. Si dava per scontato che le macchine fotografiche tradizionali fossero state definitivamente soppiantate dalla rivoluzione digitale col suo esercito di smartphones muniti di una o più fotocamere che accompagnano, documentano e rappresentano 24 ore su 24 il nostro quotidiano. Eppure la vendita di rullini, dopo il crollo degli anni Duemila, è in lento ma costante aumento. Complice forse anche una certa tendenza legata al gusto per il vintage e all’originalità a tutti i costi. Ciò non toglie che in un’epoca in cui tutto si smaterializza va rivalutandosi il duplice approccio alla fruizione di un prodotto artistico: oltre alla bellezza dell’immagine si apprezza anche la consistenza della carta su cui è stampata. Un po’ come il vinile, dato anche lui per spacciato fino a non troppo tempo fa: allo stimolo uditivo della musica di un album, si aggiunge quello tattile del suo supporto. Insomma: più sensi, per incrementare le sensazioni. La contrapposizione tra virtuale/etero/effimero e materiale/concreto/durevole sembra dunque inarrestabile. E se l’analogico sta riguadagnando negli ultimi tempi terreno è anche grazie alla passione di chi non ha mai smesso di crederci. Come Oliver Zenklusen, artista zurighese ed esponente della slow photography.
Qual è il tuo background fotografico?
Diciamo che sono stato “esposto” alla fotografia sin da bambino. Mio padre aveva una stanza oscurata per lo sviluppo fotografico, per cui sono sempre stato circondato da macchine fotografiche, prodotti chimici e stampe. Il mio serio interesse per la fotografia si è però sviluppato circa 15 anni fa, mentre studiavo chimica e scienze sociali. Nel tempo libero visitavo ogni possibile mostra e frequentavo corsi di fotografia, culminati con una master class tenuta da Diana Lui e Klavdij Sluban a Parigi. Ho scattato numerose serie fotografiche con una Polaroid degli anni ’60 per poi rendermi conto che quella macchina utilizzava una pellicola uscita di produzione…
Oliver Zenklusen in azione con la sua “Afghan box camera” © Raphael Good
Come ti sei avvicinato all’”Afghan box camera”?
L’utilizzo di materiali e apparecchiature che stavano diventando obsolete mi ha spinto a ripercorrere la storia della fotografia per trovare un modo che mi permettesse di realizzare immagini senza ricorrere a dispositivi che col tempo sarebbero stati impossibili da trovare. In quel periodo ho visto un affascinante documentario sui fotografi di strada afghani. La loro “kamra-e-faoree” (camera istantanea) è incredibilmente semplice e usa materiali che probabilmente saranno in futuro sempre disponibili. Ciò mi ha convinto a costruire la mia prima “Afghan box camera” durante un workshop dedicato alla falegnameria e facente parte di un programma d’attività offerto da un centro socio-culturale di Zurigo dove avevo vinto una residenza. Ho impiegato due settimane per realizzarla, riguardando il documentario una dozzina di volte per comprendere tutti i principi coinvolti. Da allora è la mia compagna di viaggio, utilizzandola per realizzare ritratti.
Come interagisci con le persone che fotografi?
La macchina fotografica è particolarmente ingombrante e il processo di sviluppo estremamente lento. Quasi un controsenso se si pensa al piccolo formato del risultato finale. Ma il paradosso degli sforzi e delle risorse impiegati per ottenere una fotografia unica e irripetibile, in un’epoca pervasa da camere digitali e smartphone che garantiscono l’infinita riproducibilità ad alta definizione delle immagini prodotte, innesca interessanti conversazioni filosofiche con i miei soggetti: “cos’è un’immagine?”, “cos’è una fotografia?”, “qual è il suo valore economico?”. Alcune persone ritengono che il risultato uscito da questa scatola di legno non valga più delle spese di spedizione necessarie per riceverlo nella cassetta postale di casa; altre sono invece disposte a pagare perfino 50 franchi (45 euro) come contributo per la singolarità dell’esperienza vissuta. Quella manciata di minuti capaci di produrre un’immagine unica (sviluppata senza negativo su carta con gelatina d’argento) e perciò arricchita di quel valore sentimentale pressoché impossibile da ritrovare in uno scatto pubblicato su Instagram.
Oliver Zenklusen mentre fotografa una coppia con l'”Afghan box camera” © Raphael Good
Ogni ritratto è accompagnato da un rituale tecnico molto elaborato: misurare la distanza tra l’obiettivo e il soggetto, misurare il livello di luce per calcolare il tempo di esposizione, scoprire e ricoprire manualmente l’obiettivo, sviluppare la fotografia all’interno dell’apparato di legno e infine lasciarla riposare in una bacinella piena d’acqua. C’è spazio per l’espressione artistica?
Il processo in se stesso non è tecnicamente complicato, ma i materiali coinvolti, molto semplici ma al contempo poco duttili, ne limitano la creatività. Utilizzando carta positiva diretta, una moderna variante del processo inventato nel 1840, è necessario misurare correttamente la luce per ottenere l’esatto tempo di esposizione richiesto, al fine di cronometrarlo con precisione. Già una variazione di mezzo secondo potrebbe compromettere il risultato finale, ottenendo una fotografia completamente bianca o completamente nera. Considerati questi parametri, posso comunque scegliere se scattare sotto il sole, ottenendo un effetto luminoso ricco di contrasti, o all’ombra, catturando una più ampia scala di grigi. L’aspetto artistico è arricchito dall’interazione con la persona fotografata, con cui si decide posizione e distanza dall’obiettivo, come farebbe un qualsiasi pittore ritrattista. Nulla si può manipolare dopo lo sviluppo dell’immagine. Se il risultato non è soddisfacente, si ritenta. Mi appassiona questo genere di semplicità.
Come cambia il procedimento fotografico quando invece di una persona vuoi fotografare un paesaggio?
Ho una versione portatile dell’Afghan box camera con cui realizzo negativi su carta che poi utilizzo per creare le stampe positive. L’effetto finale è differente ma le dimensioni sono le medesime, dopotutto il dispositivo è stato concepito per ritrarre i visi delle persone per fini amministrativi. Ne sto però costruendo una più grande che mi permetterà di ottenere negativi larghi fino a 50 cm di larghezza adatti a scatti paesaggistici.
Oliver Zenklusen mostra il risultato di un suo scatto © Raphael Good
Hai mai pensato di utilizzare l’”Afghan box camera” in un contesto da “street photography”?
È un tipo di approccio fotografico dove è essenziale viaggiare leggeri e non dare nell’occhio. Io mi porto dietro un’attrezzatura che pesa circa 10 kg, per cui la vedo dura. Nonostante sia un fotografo nomade, raggiunto il luogo preciso, lì sono costretto a “radicarmi”. Lavorando con tempi d’esposizione lunghi che obbligano i soggetti a rimanere immobili, sarei impossibilitato a catturare l’azione di quell’istante. Sarebbe senza dubbio un altro tipo di “street photography” e qualcuno ha già coniato un divertente soprannome per il mio kit: “Steam Punk Go Pro”.
Ti descrivi come qualcuno che scatta “lente foto istantanee vecchie di cent’anni”. In effetti le tue opere richiamano il primo periodo della storia della fotografia. Ci sono fotografi di quell’epoca che ti hanno particolarmente ispirato?
Una delle figure chiave è Roberto Donetta (1865-1932).Ticinese, è uno dei più grandi outsider della fotografia svizzera. Passa la sua vita facendo il fotografo ambulante e, per far quadrare i conti, a vendere sementi. Abbandonato dalla moglie e dai figli, alla sua morte lasciò circa 5000 negativi su vetro che si sono conservati per puro caso fino ai nostri giorni, documentano con precisione la vita arcaica degli abitanti dell’allora isolata Valle di Blenio e del lento arrivo della modernità. Le sue immagini non si possono definire eccellenti, ma hanno un’immediatezza e una poesia che trovo affascinanti. È una testimonianza di una parte povera della Svizzera poco rappresentata dalla fotografia. Roberto Donetta è sicuramente uno dei miei eroi. Vi è poi Anna Atkins (1799-1871), botanica e fotografa inglese, considerata la prima persona ad aver pubblicato un libro illustrato con immagini fotografiche. Un’altra figura che mi ha ispirato è Hyppolite Baillard (1807-1887), fotografo francese inventore del procedimento noto come “stampa positiva diretta”, che si contrappose, senza successo, alla dagherrotipia ideata da Louis Daguerre, che dominò l’intera industria fotografica nonostante fosse più ingombrante e insalubre. C’è poi Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833), noto per aver creato un apparecchio per effettuare riprese fotografiche su supporto metallico; con questo strumento, che intendo presto sperimentare, scattò Vista dalla finestra a Le Gras, ritenuta la prima fotografia della storia dell’umanità. C‘era anche la Mission Héliographique, un gruppo composto da cinque fotografi che, in missione governativa, nell’estate del 1851 percorsero la Francia in lungo e in largo per fotografarne edifici e monumenti storici a fini archivistici. Infine, ma non meno importante, posso citare Edward Sheriff Curtis (1868-1952) che ha legato il suo nome allo studio dei nativi americani fotografandone usi e costumi e caratterizzando il suo lavoro di un alto valore etnografico; a lui è dedicata, fino al 1° marzo 2020, l’attuale esposizione al NONAM di Zurigo, museo specializzato nella conservazione, documentazione e presentazione di oggetti etnografici e arte delle culture dei nativi americani.
Un ritratto scattato all’evento “kreislauf 345” (2019) © Oliver Zenklusen
Vi sono invece fotografi contemporanei che prediligi?
Seguo principalmente quelli giapponesi e in particolare i lavori di Daidō Moriyama. Ma devo ammettere di essere molto più interessato ai pionieri della fotografia.
Sei anche l’artefice di “Les délices du chaos”, di cosa si tratta esattamente?
È un insieme di attività ed esperienze. È un laboratorio di libri e stampe fatte a mano, una stazione di ricerca urbana, un negozio di souvenir, uno studio di ritratti nomadi, un laboratorio per vecchi processi fotografici… Il nome è tratto da una poesia di Baudelaire, che descriveva il caos delle città moderne, il ritmo e lo stress della vita urbana del suo tempo; ironicamente la stessa epoca in cui fu inventata la fotografia. Di cui ne è una metafora: un’immagine fissa, una “delicatezza”, che si estrapola dal caos della vita. Produco relativamente poche immagini e ritratti, qualche paesaggio; piuttosto che realizzare un grande numero d’immagini, preferisco fotografare poche e selezionate “delicatezze”.
Oltre al sito Internet, come promuovi le tue “delicatezze” analogiche sui social media digitali?
Non mi sono praticamente mai interessato alla digitalizzazione dei miei lavori. Non che sia contrario e sono convinto che attraverso la promozione su queste piattaforme il mio lavoro ne gioverebbe. È un progetto che richiederebbe molto tempo, ma che al momento non dispongo trascorrendolo in gran parte al buio a sviluppare fotografie e appresso alla mia “Afghan box camera”.
Un ritratto scattato all’evento “La lunga notte dei musei” (2019) © Oliver Zenklusen
In cosa consistono i tuoi workshop?
Ne organizzo circa 5 all’anno. L’intento è quello di trasmettere il fascino per i processi fotografici analogici; semplicemente praticandoli di fronte alle persone, molte delle quali neofite. Cerco di accrescere la loro consapevolezza sulla storia della fotografia e d’incoraggiarli a creare le proprie immagini. Inoltre ho iniziato da poco “Una spedizione attraverso le origini della fotografia”. È un corso dedicato a bambini dai 10 ai 12 anni, che imparano ad esempio a costruire macchine fotografiche o a stampare su carta fotografica, L’esperienza culminerà con una mostra dei progetti da loro realizzati nel corso dell’anno.
La tua “Afghan box camera” riscuote sempre notevole curiosità e interesse quando partecipi agli happening zurighesi come il Kreis 3/4/5, il Living Room o La lunga notte dei musei. Il prossimo 8 e 9 novembre sarai allo Schau!Werk 2019, una piattaforma dove grafici, illustratori, fotografi e tipografi presenteranno personalmente i propri lavori al pubblico che visiterà lo spazio di Aemtlerstrasse 23. Che obiettivi intendi raggiungere frequentando col tuo “studio fotografico portatile” questi eventi?
Per me fare fotografia ha senso solo se le immagini realizzate possano poi essere condivise con un pubblico. Il metodo è irrilevante, può effettuarsi attraverso una mostra, una fiera, una cartolina, un libro… Nonostante le mie fotografie rientrino nella sfera personale e privata, ritengo che la loro condivisione si comunque necessaria. Il mio obiettivo è quello di avviare un dibattito sulle immagini, sulla memoria e sulla fragilità di ogni cosa. Anche per questo motivo sono così affascinato dalla metodologia usata nel passato, che volutamente incorporo nel mie scatti contemporanei, affinché sembrino realizzati 150 anni fa. Quali ricordi, in forma fisicamente tangibile, lasciamo ai figli, alla famiglia e agli amici? Qual è il destino delle miriadi di fotografie digitali, raramente stampate, che scattiamo oggi? Ora le possiamo facilmente e immediatamente condividere con tantissime persone, ma poi, fra cent’anni, che ne sarà di questa documentazione? Andrà perduta? Nel ventiduesimo secolo la tecnologia sarà in grado di recuperarla e visualizzarla? Quale forma fisica assumerà la nostra memoria nel futuro? E come cambieranno le città e le persone fra 50 anni? La fotografia è indissolubilmente legata al tempo e alla memoria. Per questo motivo mi dedico alla sua espressione prettamente materiale.
Dal progetto “Orbites improbables”: Magnificent desolation @ Oliver Zenklusen
Les délices du chaos: WEB Facebook
Immagine d’apertura: Oliver Zenklusen disegnato da Andy Fischli (2018)
Tutte le immagini: Courtesy Oliver Zenklusen
Si ringrazia per la collaborazione Christopher Hux