Dal primo passo sulla Luna alla tragedia dello Tsunami. Unendo gusto estetico ed estro artigianale, i fotografi zurighesi Jojakim Cortis & Adrian Sonderegger ricostruiscono in 3D le immagini iconiche della nostra storia. L’affascinante progetto Double Take, in mostra presso il prestigioso C/O di Berlino, invita a riflettere sulla fragilità, arbitrarietà e manipolabilità della fotografia contemporanea
Costruzione, decostruzione, ricostruzione. Jojakim Cortis & Adrian Sonderegger hanno lavorato per cinque anni a un’idea che brilla per originalità e che ha il pregio di risvegliare la curiosità dello spettatore. Double Take è un seducente gioco di foto iconiche della storia internazionale della fotografia. Immagini impresse nella memoria collettiva vengono riprodotte come modelli tridimensionali attraverso uno scrupoloso lavoro di bricolage fatto di cartone, sabbia, legno, stoffa, ovatta, gesso e colla. I due artisti fotografano le loro costruzioni in modo da dar vita a un quadro che si avvicina in maniera stupefacente alla scena reale originaria. Un’illusione regolarmente interrotta da spiritosi intarsi incastonati nelle foto che rimandano alla situazione in atelier con tracce sparse testimonianti la costruzione delle scene. In un periodo in cui la parola “post-fattuale” è sulla bocca di tutti, la mostra Double Take, allestita fino al 1° giugno 2019 nei rinomati spazi della C/O Berlin Foundation, dopo l’inaugurale passaggio al Fotostiftung di Winterthur che l’ha co-prodotta, sfida a verificare la verosimiglianza della fotografia. Ho incontrato il dinamico duo nel loro atelier nei sobborghi di Zurigo. Un magico luogo spazio-temporale…
Come è nata l’idea di ricreare fotografie iconiche?
Adrian Sonderegger Era l’estate del 2012. Un periodo non prolifico d’offerte lavorative. Seduti nel nostro atelier abbiamo iniziato a immaginare di fare qualcosa per noi stessi. Così per scherzo è nata l’idea di riprodurre le fotografie più costose della storia. Cercando su Internet ci siamo imbattuti in Reihn II di Adreas Gursky, venduta all’asta l’anno prima per l’incredibile somma di 4.3 milioni di dollari. Abbiamo deciso di ricreare un modello tridimensionale di quell’immagine per poi, a lavoro ultimato, fargli una fotografia. Il giorno dopo ne abbiamo scattata una seconda, questa volta da una distanza maggiore affinché nell’inquadratura fossero visibili l’ambiente circostante e gli strumenti utilizzati durante il making of, ottenendo un risultato decisamente più interessante. Le altre due fotografie più costose della storia sono state realizzate da Cindy Sherman, ma i suoi soggetti umani fotografati così da vicino erano troppo complicati da riprodurre in tre dimensioni. Per cui abbiamo corretto il tiro indirizzando il nostro progetto verso le foto iconiche. Sfogliando libri dedicati alla storia della fotografia alla ricerca delle immagini più conosciute e famose, abbiamo trovato il nostro secondo soggetto: La Cour du Domaine du Gras di Joseph Nicéphore Niépce che, datata 1826, è a tutti gli effetti la prima immagine fotografica scattata nella storia.
Making of “9/11” (di Tom Kaminski, 2001), 2013 © Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger
Cosa rende una foto “iconica”?
Jojakim Cortis Quando viene ripetutamente visualizzata. Un esempio concreto è il disastro dell’Hindenburg. Grazie alle nuove tecnologie del tempo, fu una delle prime immagini a essere trasmessa dagli Stati Uniti all’Europa, accrescendo in tal modo la sua popolarità. Quella fotografia venne proiettata nelle sale cinematografiche durante i cinegionali, imprimendosi indelebilmente nella mente degli spettatori. Spesso una foto iconica coincide con un cambiamento: quel disastro fu la fine dell’uso dei dirigibili, mentre l’incidente occorso al Concorde ha segnato quella del volo supersonico. Non so se al giorno d’oggi esistano immagini che possano ancora definirsi iconiche. Per realizzare ad esempio il making of “9/11”, l’attacco alle Torri gemelle di New York del 2001, abbiamo dovuto scegliere una sola fotografia fra le centinaia in circolazione. Non riteniamo sia possibile parlare di foto iconica quando l’evento rappresentato data solo un paio d’anni prima. La fotografia prima di diventare un archetipo necessita di temp, di una diffusione capillare e di un suo utilizzo da parte di differenti contesti culturali.
Making of “Tsunami” (di un turista sconosciuto, 2004), 2015 © Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger
Il making of “Tsunami”, l’onda anomala che devastò le coste del sud-est asiatico nel 2004, è la fotografia iconica più recente esposta nella mostra Double Take. Rappresenta il termine del vostro progetto?
AS No, è solo l’immagine più recente che abbiamo ricreato. Va detto inoltre che sia “Tsunami” che “9/11” non sono letteralmente delle fotografie, ma piuttosto fotogrammi tratti da dei video. Questo media ha il medesimo valore intrinseco di una fotografia e riteniamo assolutamente corretto utilizzarlo per i nostri lavori. Entrambe le immagini sono il simbolo di qualcosa che è successo ed entrambe sono dal punto di vista estetico essenziali. In “Tsunami” sono visibili la piscina, la grande onda, il bel tempo e null’altro. Dal nostro punto di vista è ciò che realmente è accaduto in quel luogo, una vacanza paradisiaca interrotta da un evento molto crudele. Nell’immagine aleggia una certa suspense e riteniamo sia un’ottima fotografia.
E da allora nessun’altra immagine è riuscita a catturare il vostro interesse?
AS Abbiamo dato uno sguardo alle immagini più recenti, come quelle relative agli attacchi terroristici, e controlliamo sempre le fotografie selezionate annualmente dalla World Press Photo, ma sono immagini che necessitano di anni affinché vengano ripetutamente utilizzate per diventare alla fine un simbolo da tutti riconosciuto.
JC Abbiamo seriamente considerato di ricostruire l’immagine dell’omicidio dell’ambasciatore russo avvenuto in una galleria d’arte a Istanbul. Purtroppo abbiamo dovuto abbandonare il progetto: la fotografia, troppo complicata da modellare, avrebbe richiesto una tempistica di realizzazione che non ci avrebbe consentito di esporla e d’inserirla nella pubblicazione che accompagna la mostra.
Making of “208-N-43888” (di Charles Levy, 1945), 2013 © Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger
Come scegliete le fotografie che intendete ricreare? Alcune sembrano essere basate su eventi storici, mentre altre sono ben note per motivi artistici. Quali sono i criteri utilizzati per capire quale particolare immagine abbia i requisiti per un making of?
JC All’inizio del progetto il criterio era molto semplice: l’immagine doveva essere famosa e noi in grado di riprodurla in un modello tridimensionale. Nei nostri primi making of abbiamo evitato di riprodurre fotografie dove apparissero persone. Gli esseri umani sono molto difficili da modellare e non volevamo correre il rischio che il risultato potesse apparire maldestro e scatenare una risata. Con lo sviluppo del progetto ci siamo convinti della necessità di equilibrare i contenuti delle foto: alle catastrofi e agli episodi di guerra abbiamo affiancato soggetti culturali, musicali, sportivi e artistici.
Making of “Nessie” (di Marmaduke Wetherell, 1934), 2013 © Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger
Per ottenere le corrette proporzioni e prospettive, come per ricreare il senso di realtà e riconoscibilità dell’immagine originale, realizzate i vostri modelli tridimensionali affidandovi al vostro occhio oppure utilizzate metodi più rigorosi? E quanto tempo impiegate solitamente per realizzarne uno?
JC I primi making of sono stati piuttosto semplici da realizzare: dalla fotografia originale abbiamo estrapolato una versione digitale che confrontavamo continuamente col modello in costruzione. Ora utilizziamo il computer per generare un’immagine a più livelli che ci consentono di realizzare la versione in 3D. Il tempo richiesto per la produzione dipende dalla complessità della foto stessa. Il making of “Nessie”, che raffigura il mostro di Loch Ness fotografato nel 1934, ha richiesto circa 3 giorni di lavoro; per altri progetti sono stati necessari alcuni mesi, anche se ovviamente non continuativi.
Ci sono aspetti particolari in un making of che sono più impegnativi di altri? Qual è stato quello più difficile da modellare ?
JC Se i soggetti umani sono quelli più ostici da riprodurre, i paesaggi al contrario sono generalmente i più semplici, anche se completamente differenti fra loro. Ovviamente vi sono delle eccezioni: per il making of “Exxon Valdez”, la superpetroliera che nel 1989 s’incagliò in una scogliera del golfo d’Alaska, le chiazze di olio sull’acqua sono state piuttosto complicate da simulare; ma anche per il making of “Moon and Half Dome”, un panorama del parco nazionale di Yosemite scattato da Ansel Adams nel 1960, ha richiesto molto tempo per essere terminato.
Making of “AS11-40-5878” (di Edwin Aldrin, 1969), 2014 © Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger
Quest’anno si celebra il 50° anniversario dell’allunaggio. Come si è sviluppato il processo creativo per il making of del primo passo sulla Luna?
AS Dopo aver scartato il risultato poco soddisfacente ottenuto col primo tentativo ci siamo concentrati esclusivamente sull’impronta. Innanzi tutto abbiamo cercato il materiale adatto a ricreare in modo convincente il terreno lunare. Dopo aver testato polvere, sabbia e grano, il cemento si è rivelato la sostanza perfetta da utilizzare. Abbiamo poi creato il modello della suola dello stivale di Edwin Aldrin e imitato il movimento della sua camminata sulla Luna. A causa della soffice consistenza del cemento, sono stati necessari quasi 200 tentativi per ottenere un’impronta convincente. Dopodiché abbiamo modellato la superficie circostante con sabbia al setaccio, aggiungendo delle rocce sufficientemente alte per ottenere le ombre corrette. Terminato il modello lo abbiamo infine “messo in scena” incorniciandolo nell’ambiente del nostro atelier.
Making of “Five Soldiers Silhouetted at the Battle of Broodseinde” (di Ernest Brooks, 1917), 2013 © Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger
Quali sono gli aspetti tecnici da considerare per fotografare un modello tridimensionale? Utilizzate particolari effetti per rendere la ricostruzione riconoscibile al pubblico?
AS Conoscere le impostazioni date dal fotografo al suo obiettivo per scattare l’immagine originale, ci permette di riprodurle sulla nostra macchina fotografica, facilitandoci il lavoro. In seguito aggiungiamo le nostre scelte stilistiche come la prospettiva più ampia, necessaria a includere l’ambiente dello studio circostante. Solitamente utilizziamo un grandangolo, ma per il “Black Power Salute” alle Olimpiadi di Città del Messico abbiamo impiegato il teleobiettivo come per la foto originale. Anche l’illuminazione gioca un ruolo importante. Per l’immagine scattata da Ernest Brooks a cinque soldati durante la Prima Guerra Mondiale è stato piuttosto semplice ricreare l’effetto luminoso: abbiamo ritagliato da un cartoncino nero le relative sagome illuminandole poi da dietro. In situazioni particolari utilizziamo ad esempio dispositivi che producono nebbia, per ottenere un effetto sfocato, o lastre di vetro posizionate davanti l’obiettivo, dopo averle spruzzate all’occorrenza con acqua o vernice.
Per sottolineare il processo creativo della realtà alternativa avete mai pensato di esporre in una mostra sia la fotografia che il relativo modello in 3D?
JC Sarebbe molto complicato. Questi modelli molto tempo per essere ricreati, inoltre sono troppo fragili da trasportare e velocemente deperibili, non avrebbero una lunga vita in un museo. Abbiamo fatto un’eccezione lo scorso gennaio a Zurigo durante “photo SCHWEIZ 19”, la più grande manifestazione fotografica della Svizzera. Per quell’occasione abbiamo ricreato una grande camera oscura. È stato un esperimento interessante ma sarebbe impensabile proporlo regolarmente.
Le vostre opere sembrano catturare il concetto metafisico di realtà, affiancando l’immagine ricreata alle componenti reali con cui è stata realizzata. Questa interazione sembra essere il comune denominatore dei vostri lavori. Sottolineare il conflitto tra vero e falso è il vostro obiettivo?
AS Questo è esattamente lo scopo finale. Se all’inizio l’intenzione era solamente quella di ricreare un’immagine iconica, fotografandone il modello tridimensionale, abbiamo notato che allargando l’inquadratura il progetto iniziava ad assumere altri significati. Quello che abbiamo aggiunto è ciò che possiamo chiamare realtà e ha un notevole impatto sullo spettatore, che prima osserva la celebre fotografia, riconoscendola immediatamente, poi inizia a notare che quell’immagine non è per nulla reale, scoprendo infine la realtà proprio attraverso la cornice.
Making of “Death of a Loyalist Militiaman, Cordóba front, Spain, early September 1939” (di Robert Capa, 1936), 2016 © Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger
Nei vostri lavori includete sempre la foto originale da confrontare con l’immagine ricostruita?
JC A volte è presente, a volte no. Solitamente le fotografie originali sono appoggiate da qualche parte nello studio, ma non devono obbligatoriamente apparire nell’inquadratura. Non vogliamo continuamente forzare un confronto tra la nostra ricostruzione e l’originale vero e proprio, piuttosto preferiamo che sia la mente dello spettatore a creare quel collegamento.
In che modo le reazioni del pubblico vi hanno influenzati? Avete qualche aneddoto da raccontare nell’aver visto il pubblico interagire con le vostre opere?
JC Le reazioni sono molteplici e differenti fra loro. Vi sono persone che danno un’occhiata veloce alla fotografia e dopo averla riconosciuta passano all’immagine successiva. Per noi è importante che i visitatori di una mostra non gettino solo uno sguardo sfuggente. Altri hanno pensato che, vista la ricostruzione così perfetta, le nostre immagini fossero in realtà gli originali “photoshoppati”. I nostri modelli sono fatti a mano, non sono copie e uno sguardo veloce non permette di realizzare e apprezzare questo aspetto. Solo quando si dedica il tempo necessario a leggere attentamente l’immagine, si individuano suggerimenti e strumenti impiegati nel processo creativo e solo da quel momento si inizia a comprendere come è stata veramente creata l’immagine.
Joakim Cortis e Adrian Sonderegger ritratti da Noë Flum
Avete già in mente progetti che seguiranno a Double Take?
JC Questa è sempre l’ultima domanda che ci viene posta e rispondiamo sempre che si tratta di un segreto. Abbiamo appena terminato i preparativi per la mostra al C/O di Berlino, dove oltre alle fotografie esposte il pubblico avrà modo di guardare un video dedicato al “making of” di alcuni dei nostri progetti. Sicuramente Double Take continuerà in futuro con una serie di altre mostre.
Si ringrazia per la collaborazione: Sascha Renner del Fotostiftung Schweiz e Christopher Hux
Immagine di apertura: Making of “Tiananmen” (di Stuart Franklin, 1989), 2013 © Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger
Tutte le immagini Courtesy Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger