Allô World!

Vincent Morisset è un esploratore che vive e si evolve attorno a confini esistenti o immaginati, riconoscendoli per il piacere di confonderli. Nel 2007 ha creato AATOAAA (pronunciato “à toi”, che significa “tuo”, ma anche “il tuo turno” in francese), uno studio di Montreal dedicato alle produzioni originali. Da oltre un decennio, col suo piccolo dream team acclamato a livello internazionale, rielabora il modo in cui viviamo Internet, i video musicali, la realtà virtuale, i videogiochi, le copertine dei dischi e i film. Per la prima volta tutti i mondi nati da Vincent coesistono simultaneamente sotto lo stesso tetto. Quello del MuDA, il Museo delle Arti Digitali di Zurigo che, fino al 3 febbraio 2019, gli dedica una mostra più unica che rara. L’ho incontrato per fargli qualche domanda, mettendo da parte mouse e tastiera

Per la prima volta l’insieme dei tuoi lavori è presentato in un museo. Perché hai scelto il MuDA per questo eccezionale evento?

Conosco Christian Etter (co-direttore del MUdA assieme a Caroline Hirt, cda) da ancor prima che il museo nascesse e quando mi parlò dell’intenzione di creare questo spazio gli ho offerto subito il mio sostegno professionale. Abbiamo poi iniziato a riflettere sulla possibilità di organizzare un’esposizione che presentasse in un’unico luogo lo spettro completo del mie opere, che vengono sì ospitate in altri musei attorno al mondo ma sempre singolarmente, in esposizioni collettive accanto a lavori di altri artisti. L’invito arrivato dal MuDA è il frutto di un’amicizia e di una passione comune. Sono estremamente felice di essere ospitato in questo spazio unico al mondo.

Le tue creazioni sono concepite per un’interazione individuale davanti a un computer. Qual è stata la sfida più grande per adattarle agli spazi di un museo con schermi più grandi, differenti interfacce e per essere usufruite da più partecipanti simultaneamente?

Dopo aver riflettuto su questo particolare “ecosistema”, che avrebbe ospitato i lavori, ho deciso di farli evolvere utilizzando tecnologie sperimentali che all’epoca della loro originale ideazione ancorq non esistevano. Molte delle opere esposte sono praticamente dei “redux” targati 2018. È possibile ad esempio sperimentare Neon Bible in una specie di comunione triangolare, dove ciascuno dei tre partecipanti è consapevole delle reazioni degli altri due, oppure abbandonare tutte le interfacce fisiche finora indispensabili e utilizzare solo il movimento della testa davanti allo schermo per interagire con Just a Reflektor.

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Just a Reflektor, 2013. Collaborators: Arcade Fire and David Bowie, Aaron Koblin, Caroline Robert, Édouard Lanctôt-Benoit, Brandon Blommaert, Maciej Zasada, Axelle Munezero, Maurice Gilles, Bybiane Hyppolite, Charlemagne Fritzner, Renata Morales, Nicolas Roy, Mathieu Laverdière, Sach Baylin-Stern, Amelia Roberts, AATOAA, Unit9, Antlers, Cine Institute, Google Creative Lab. WEB

Cosa rende unica l’esperienza d’interagire con le tue opere in un museo piuttosto che fra le pareti domestiche?

In privato, davanti allo schermo di un computer, i miei progetti sono solitamente percepiti come articoli di una rivista e che una volta letta viene chiusa. Nella possibilità di sperimentare le mie opere non solo una dopo l’altra ma anche nell’ordine offerto da questo allestimento c’è un qualcosa di speciale. Unica è anche l’opportunità di osservare come, di fronte alla medesima installazione, i visitatori interagiscono in modo differente. Il fatto che vi siamo spettatori più contemplativi o più attivi rispetto ad altri permette di far risaltare tutte le sfumature del progetto. Sprawl II ad esempio è probabilmente il lavoro più coinvolgente qui installato: grazie a una scenografia che ricorda la sala di una discoteca con tanto di sfera specchiata che gli ruota sopra la testa, il partecipante che balla davanti al video diventa, agli occhi delle persone che in quel momento gli stanno attorno, il co-protagonista dell’installazione.

Come hai reagito nel vedere il pubblico, intervenuto all’apertura della mostra, interagire con le tue opere?

Abituato a un lavoro quotidiano molto astratto basato principalmente sulla realizzazione di progetti web e, in secondo momento, sull’analisi delle statistiche relative al loro utilizzo, è stato affascinante osservare in tempo reale le reazione dei visitatori dipingersi sui loro volti mentre interagivano con le opere esposte. Soprattutto quando il loro comportamento si rivela differente da quello che mi ero immaginato. Confermando che la natura umana è imprevedibile e che, nonostante ce la metta tutta, è impossibile programmarla. Durante il week-end che ha accompagnato l’inaugurazione della mostra, fra vernissage, talk e l’apertura ufficiale, grazie al numeroso pubblico intervenuto ho avuto l’occasione di prendere nota di numerosi dettagli che mi torneranno utili per migliorare i lavori esposti.

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Sprawl II, 2010. Collaborators: Arcade Fire, Régine Chassagne, Karine Denault, Gabrielle Desgagnés, Noémie Dufour-Campeau, Mark Eden-Towle, Alan Lake, Milan Panet-Raymond, Esther Rousseau-Morin, Michael Watts, Caroline Robert, Édouard Lanctôt-Benoit, Dana Gingras, Christophe Collette, Renata Morales, Stéphane Lafleur, AATOAA. WEB

Fra le mura domestiche per interagire coi tuoi lavori si usano la tastiera, il mouse o il display di uno smartphone muovendolo rivolto allo schermo del computer. In questo spazio museale è possibile toccare con mano la parete di uno schermo gigante o addirittura muovere il proprio corpo di fronte a esso. Immagini in futuro altri modi per creare questa interfaccia tra l’utente e media digitali?

In realtà questa esposizione vuole andare oltre il concetto d’interfaccia. Alcune delle opere esposte rappresentano il primo tentativo di sperimentazione della “non-interfaccia”. L’obiettivo finale è quello di non dover più indossare occhiali o caschi, né maneggiare mouse o joystick, ma permettere che il corpo umano sia la sola interfaccia. Non siamo ancora arrivati al punto di poter controllare con lo sguardo o col movimento delle mani ciò che appare su uno schermo, come accade nei film di fantascienza, ma sono persuaso che questo futuro non è poi così lontano.

Sei stato il primo a “trasmettere” Neon Bible su internet, dando vita al primo video musicale interattivo mai realizzato. Lo hai fatto proprio nel periodo in cui MTV ha cessato di trasmettere video musicali sulla TV convenzionale. Sei rimasto sorpreso da successo che ne è derivato e dai riconoscimenti ottenuti?

Si è trattato innanzitutto di un’esigenza pragmatica: dove e come poter raggiungere il pubblico destinatario di quel video. Parliamo della metà degli anni duemila, il periodo in cui è avvenuto il più drastico e veloce mutamento dell’industria musicale, quando sono nati i blog musicali e il mercato dell’elettronica di consumo è stato invaso dagli iPod. Tutti noi siamo stati obbligati a reinventare l’approccio alla musica. Nel momento in cui i video musicali hanno iniziato a essere visti su un computer mi sono detto: “perché non usufruire del potenziale offerto dall’informatica?” Nonostante Internet sia per lo più utilizzato come piattaforma di consultazione, per me resta fondamentalmente uno spazio, ancora sottovalutato, dove raccontare storie e creare nuove forma di comunicazione.

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Neon Bible, 2007. Collaborators: Arcade Fire, Win Butler, Olivier Groulx, Christophe Collette, Jean-Luc Della Montagna. WEB

I tuoi lavori hanno aspetti simili alla “performance art” di Laurie Anderson; potresti immaginare di creare progetti digitali per valorizzare un concerto musicale dal vivo?

Non ho finora esperienze in questo particolare aspetto della produzione musicale. Sicuramente sarebbe interessante lavorare sull’interazione che si instaura tra pubblico e l’artista sul palcoscenico, sull’istante in cui avviene l’incontro tra lo spettatore e l’opera a cui sta assistendo. Le difficoltà sarebbero immense: gestire la reazione di una folla composta da centinaia se non da migliaia di persone richiede delle abilità e di tecnologie completamente differenti da quella investite nelle installazioni presenti al MuDA. Il rapporto causa-effetto sarebbe molto più astratto ma allo stesso rapüpresenterebbe una sfida alquanto allettante.

Dopo Neon Bible hai realizzato altri video per gli Arcade Fire, ma non sei stato coinvolto in Everything Now il loro più recente album. Hai terminato di collaborare con gruppi musicali?

Mai dire mai. Volevo però uscire da questa gabbia dorata dove sono stato a lungo percepito come l’esperto dei video musicali interattivi. È stata una bellissima esperienza soprattutto perché questi progetti musicali hanno preso forma parallelamente all’amicizia nata con gli artisti con cui ho collaborato. Ma ero pronto a lasciare quel tipo di ambiente per dedicarmi ad altri progetti e a nuove passioni.

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Way to Go, 2013. Collaborators: Philippe Lambert, Caroline Robert, Édouard Lanctôt-Benoit, Hugues Sweeney, Marie-Pier Gauthier, AATOAA, France Télévisions, National Film Board of Canada. WEB

In alcune interviste hai dichiarato che nei tuoi lavori nulla è casuale, ma esiste un percorso da te creato attraverso il quale l’utilizzatore si muove in base alle sue azioni. Way to Go ne è l’esempio più classico: si tratta di un gioco, di un’esperienza che ha nell’apprendimento un suo obiettivo o di una storia che viene raccontata?

Gioco molto su questa ambiguità quando scrivo una sceneggiatura per i miei progetti. Le persone che lavorano nel campo dell’animazione lo percepiscono some un cartone animato un po’ strano, quelli che si occupano di videogiochi lo percepiscono come un videogame un po’ bizzarro. La domanda che tutti indistintamente si fanno è: “ma cosa stiamo guardando?” Sono essenzialmente opere ibride, aperte e il fatto che non sia facile etichettarle mi rende particolarmente orgoglioso. L’interattività che richiedono è di natura prettamente intellettuale, ciò permette di interpretarle in modo personale: ognuno può proiettarsi nell’opera e trovarci ciò che vuole.

Cosa trovi di più interessante nella creazione di video interattivi e quali sono i tuoi obiettivi nel lavorare con questi media?

Ho a che fare con un universo sconosciuto un terreno pressoché vergine dove ho la possibilità d’inventare in prima persona un vocabolario inedito modificando in continuazione la relazione che si ha con lo spettatore. Ciò che mi entusiasma è quello di sviluppare progetti che vanno oltre il video gioco o alla realtà virtuale ma vere e proprie esperienze esistenziali.

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Côte à Côte, 2017. Collaborators: Caroline Robert, Ruby-Maude Rioux, AATOAA, Partenariat du Quartier des spectacles. WEB

I tuoi lavori sono particolarmente cinematici, ne è un esempio eclatante Inni il documentario realizzato per i Sigur Rós; quali registi hanno maggiormente influenzato la tua idea di fare film?

Alcuni critici nel vedere Inni hanno immediatamente fatto dei parallelismi con i film eterei del canadese Guy Maddin. Dopo aver girato il film in modo piuttosto classico l’ho proiettato su uno schermo per poi fotografarlo, sviluppando in seguito una tecnica di manipolazione dell’immagine che mettesse in risalto tutte le imperfezioni e la spontaneità derivanti da un concerto live. Ho appreso molto dai film di animazione realizzati da un’intera generazione di registi sperimentali usciti dalla scuola dell’ufficio nazionale del film canadese, o dai tecnici che hanno inventato particolari cineprese per riprendere il movimento delle meduse sott’acqua, o ancora dal regista Chris Maker il perfetto esempio di artista che fa ricerca e che gioca con la forma che sta riprendendo.

Offrendo un’esperienza all’utilizzatore, come in BLA BLA o Côte à Côte, i tuoi progetti sono considerati anche di natura esperienziale; quali particolari videogiochi o altri media hanno caratterizzato questo aspetto dei tuoi lavori?

Da giovane ho giocato molto coi videogame e ho guardato molti film d’animazione e ciò che più mi affascinava era la scenografia in cui prendeva forma la storia raccontata. E ancora oggi ciò su cui rifletto maggiormente è lo spazio dove collocare i meccanismi d’immersione che accompagnano i miei progetti.

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BLA BLA, 2011. Collaborators: Caroline Robert, Édouard Lanctôt-Benoit, Philippe Lambert, Hugues Sweeney, AATOAA, National Film Board of Canada

I visitatori del MuDA hanno l’opportunità di interagire Vast Body che qui presenti in anteprima mondiale. Puoi spiegare come questo nuovo progetto è correlato ai tuoi lavori precedenti? Quali sono le nuove idee che esplorate con questo pezzo?

Esteticamente vicina a Neon Bible e a Sprawl II, Vast Body rappresenta un’evoluzione dell’incontro a due iniziato in BLA BLA. L’idea era quella di spingere l’acceleratore sui meccanismi che ci permettono d’interagire con il nostro “alter ego”. Il risultato ottenuto, grazie a una tecnologia che ha raggiunto livelli sofisticati impensabili qualche hanno fa, è così naturale da diventare quasi inquietante. Una situazione emotiva derivante dalla non comprensione di come immagini pre-registrate di altre persone possano miscelarsi in modo così fluido con quelle di noi stessi che una telecamera live sta riprendendo davanti lo stesso schermo.

Pensi che questa mostra così concepita possa viaggiare in altri spazi museali?

Spero che questa sia la prima di una serie di esposizioni. Il lavoro di base nel presentare sotto lo stesso tetto le mie installazioni è stato collaudato qui al MuDA, ora non mi resta che incrociare le dita augurandomi di ricevere inviti da altre istituzioni culturali che permettano alle mie opere di raggiungere un pubblico sempre più vasto.

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Vast Body, 2018. Collaborators: Louise Lecavalier, Rachel Harris, Caroline Robert, Kathy Casey, France Bruyère, Édouard Lanctôt-Benoit, Thierry Sirois, David Francke-Robitaille, AATOAA

Immagine di copertina: ritratto di Vincent Morisset fotografato da John Londoño © AATOAA

Tutte le immagini: Courtesy MuDA

Si ringrazia per la collaborazione: Christopher Hux, Ken Pope e Caroline Hirt

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