Dalle nonne ha imparato a cucire e a lavorare ai ferri, passioni che non lo hanno più abbandonato. Dopo aver raggiunto posizioni di successo nell’industria della moda, all’età di 50 anni decide di cambiare vita, diventando testimone visionario di un mondo in continua evoluzione. Paladino del jeans sostenibile e ambasciatore della gonna maschile, Gerold Brenner è stato recentemente consacrato tra i dieci uomini svizzeri con più stile. L’ho incontrato poco prima della sua partenza per Firenze dove, dal 12 al 15 giugno, parteciperà come fashion curator al 94° Pitti Uomo
Qual è il tuo primo ricordo legato alla moda?
Sono le fotografie di famiglia, in particolare quelle che raffigurano i miei genitori scattate negli anni ’50 e ’60. Ricordo anche tutte quelle volte che rifiutavo d’indossare i vestiti scelti da mia madre: già da bambino avevo idee e gusti ben precisi.
Quando è nata la tua passione per la moda?
Erano gli anni ’70 e l’ARD, il primo canale della TV di stato tedesca, trasmetteva Neues aus Kleidermarkt una serie condotta da Antonia Hilke e dedicata alle nuove tendenze di moda direttamente dalla sfilate di Parigi e Milano; guardando quei fantastici reportage mi ripromisi che prima o poi avrei lavorato in quel campo. Trascorrendo poi molto tempo con le mie due nonne ho imparato a cucire e a lavorare a maglia. Già a cinque anni ricevetti in regalo una piccola macchina da cucire. Due passioni che mi hanno sempre accompagnato nel corso della mia carriera: da sarto su misura nel senso più classico del termine a stilista di moda per grandi aziende tedesche ed europee, arrivando infine a coordinare il lavoro di 25 designer presso Manor la più vasta catena di grandi magazzini svizzera. Il mio ultimo impiego fisso.
© Play Hunter – salopette: Marlboro, camicia: vintage
Cosa è successo poi?
Durante l’ultimo periodo da Manor mi sono reso conto di quanto la creatività, motivo per cui ho abbracciato questa professione, non fosse più al centro del mio lavoro. Ho iniziato a essere stanco di disegnare sempre lo stesso noioso modello di pantaloni o di non poter scegliere colori al di fuori di quelli dettati dal mercato stagionale. Anche il modello di business è radicalmente mutato: la folle rincorsa al profitto ha contribuito a una generale perdita della qualità, non solo del capo di abbigliamento ma anche dei suoi processi produttivi, ambiente e condizioni lavorative compresi, compromettendo un’aspetto che mi sta molto a cuore: la sostenibilità. Per cui mi son chiesto, che ci faccio ancora in questo ambiente? Se devo vivere tanto a lungo quanto mio padre, che ora di anni ne ha 94, ho ancora una lunga esistenza davanti a me, ed è il caso che inizi a cambiare qualcosa.
Come sei ripartito?
Parallelamente al lavoro di designer freelance, ho creato il brand “Brenner my denim soul”, un tessuto di cui sono un grande estimatore e che, oserei dire, amo alla follia. Al contrario del poliestere, che mantiene il suo colore artificiale per anni, il denim è vivo e col passare del tempo si modifica, sia a livello di struttura che di colore. Insomma non è mai uguale a se stesso, un po’ come la persona che lo indossa. Ho iniziato a confezionare borse e accessori con denim riciclato e organico. Sono pezzi unici venduti su ordinazione a clienti di tutto il mondo, a cui presto si aggiungeranno camicie e à una linea d’abbigliamento che prevede camicie e altri capi di materiale organico.
© Gerold Brenner – borsa, camicia e cappello: BRENNER my denim soul
Nelle tue creazioni hai introdotto tecniche di cucito giapponesi, come mai?
Da tempo ho adottato un aspetto tipico di quella cultura e che mi sta molto a cuore. Quando un oggetto si rompe i giapponesi tendono a ripararlo con materiale pregiato, il risultato ottenuto ha per loro un valore intrinseco superiore a prima. Contrariamente alla cultura occidentale, che tende alla pressoché immediata sostituzione di un oggetto rotto o di un indumento usurato. Il “boro” e lo “sashiko” rappresentano quel materiale pregiato che, grazie alla mia esperienza sartoriale, utilizzo per dare una connotazione personale e unica ai miei manufatti. Ma non solo: il cucito con cui assemblo variegate pezze di denim, che diventeranno un patchwork fantasioso e multicolore, è anche una scelta personale in contrapposizione all’usa e getta che condiziona la nostra società contemporanea. Il mio obiettivo è quello di creare vestiti e accessori che durino un’intera vita, piuttosto che l’arco di una sola stagione.
Lo slogan “Responsible denim for a better tomorrow” è sempre più popolare; ma come può questo tessuto essere sostenibile quando è così nocivo per l’ambiente?
Vero, ma la buona notizia è che la tela blu dopo 120 anni di storia è pronta a rinascere abbracciando la filosofia green. La sostenibilità si fa o riciclando o innovando la produzione per creare un prodotto che non intacchi l’ambiente. Il cotone deve necessariamente essere organico, proveniente da coltivazioni prive di pesticidi. È possibile al giorno d’oggi anche ridurre notevolmente l’utilizzo di acqua necessario nella lavorazione del denim e utilizzare coloranti naturali o comunque con meno prodotti chimici al loro interno. Senza dimenticare il processo produttivo che spesso avviene in fabbriche dove gli operai tessili lavorano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza. Ovviamente il costo di produzione è più elevato ma sta alle grandi aziende educare il consumatore e spiegare che un jeans che non inquina costa un po’ di più. Alcune già lo fanno anche se siano solo agli inizi.
© Jeroen von Rooijen – gonna e tunica bianca realizzate da Gerold Brenner
“Men should wear skirt” si legge sul tuo profilo Facebook, poi spiegare questo concetto?
È da un paio d’anni che rifletto sul concetto della gonna per l’uomo e su questo progetto, di cui ho iniziato ad abbozzare un libro, mi dedicherò con passione per i prossimi anni. Mi sono reso conto che già molti uomini indossano questo indumento, basta volgere lo sguardo verso territori africani o asiatici dove l’uso della tunica, del caftano, della veste o del kimono è una quotidiana consuetudine. La cultura occidentale è dominata invece dai dettami americani ed europei: a tutti gli uomini è stato imposto d’indossare solo pantaloni. Sono passati oltre duecento anni dalla Rivoluzione Francese ma nulla è cambiato, nonostante ci siano alcuni fashion designer che, nelle loro collezioni, presentano almeno una gonna per l’uomo, interpretandola con tagli sempre più innovativi. Indossare una gonna per me non solo rappresenta l’esigenza di rispettare culture differenti ma è anche un desiderio di emancipazione. Voglio riuscire a far riflettere sul confine di genere, sulle differenze tra il maschile e il femminile, su come adattare alla fisicità dell’uomo un capo d’abbigliamento concepito per vestire il corpo di una donna. Ci sono voluti decenni ma oggi nessuno si scandalizza se una donna indossa i pantaloni, io sto lavorando affinché nessuno s’indigni nel vedere un uomo indossare una gonna. Insomma, se per le donne Marlene Dietrich ha sdoganato i pantaloni, io per gli uomini voglio riuscire a sdoganare le gonne.
Una gonna che sia però maschile…
Certamente. Il corpo di un uomo è ovviamente differente da quello di una donna. Come diverse sono le rispettive esigenze fisiche e abitudini. E qui entra di nuovo in gioco il mio lavoro di sarto: aggiungendo una chiusura sul davanti, evitando così di dover alzare la gonna per poter urinare, e applicando tasche sui lati dove infilare mani o portafoglio.
Tu indossi spesso la gonna in pubblico, qual è la reazione?
Direi piuttosto positiva, forse perché l’immagine del sottoscritto che la gente in strada percepisce è rilassata e maschile. La mia folta barba non induce a pensare perché mi vesta da donna ma, al contrario, qual è il motivo per cui un uomo barbuto come me la indossi. Qualche settimana fa sono stato invitato all’annuale ballo del Teatro dell’Opera e mi sono presentato con una gonna abbinata a un frac. Credo di essere stato il primo uomo a entrare all’Opera di Zurigo con una gonna. Mi hanno chiesto se la indossavo per motivi storici o storico culturali, ho raccontato loro la mia storia e tutti si sono dimostrati interessati. Non mancano ovviamente i commenti negativi a commento dei miei post sui social che mi accusano di essere un pervertito, che le gonne sono a esclusivo uso femminile, ecc. Io rispondo semplicemente: guardate cosa veste il vostro papa. Alla fine sì, il mio obiettivo è far riflettere il maggior numero di persone, avvicinandole a nuove idee, a nuove modalità di pensiero.
© Ilya Varegin – cappotto: Infundibulum di Ilya Varegin
Stil, il supplemento domenicale dell’autorevole quotidiano Neue Zürcher Zeitung, ti ha recentemente posizionato al 9° posto fra i 50 uomini svizzeri più di buon gusto. Che reazione hai avuto?
L’aspetto interessante di questa classifica sono i parametri considerati dalla redazione che, non limitandosi al guardaroba, ha valutato numerosi altri criteri come per esempio le competenze di moda, lo charme, il carattere o l’umorismo di ciascuno dei candidati. Per cui sono particolarmente lusingato di questo riconoscimento, ma anche un po’ sorpreso se penso al fatto che per molti il mio stile è considerato troppo vistoso. Non ci sono vie di mezzo: o lo si ama o lo si odia.
Come definiresti allora il tuo eclettico stile?
Particolare. Vesto mie creazioni come quelle di designer indipendenti poco conosciuti, soprattutto giapponesi. Mescolo di tutto, indossando anche molti capi di seconda mano. Mi piace considerarlo “retro-avanguardista”, definizione utilizzata dal designer veneto Marc Point per le sue creazioni. Il mio stile rispecchia ovviamente la mia personalità multiculturale e il mio sentirsi un hippy. Sono un amante della natura e un pacifista. Non è un caso che su un mio kimono ho ricamato Where have all the flowers gone? titolo di una famosa canzone antimilitarista degli anni Sessanta più che mai attuale considerati i tempi che stiamo vivendo. Il designer americano Epperson mi ha perfino chiamato “Mr Freedom”.
Pavone o uccello del paradiso?
Preferisco il secondo perché più facilmente del pavone, a cui vengono spesso tagliate le ali, può volare. Il pavone mi ricorda le limitazioni che riscontravo nel fashion business. Per me è essenziale volare: alto, tanto e in modo il più possibile estroverso. Il pavone è un po’ troppo snob per i miei gusti.
Pantaloni colorati in modo naturale con curcuma e camicia di seconda mano rielaborata da Gerold Brenner, giacca: Barbour, sandali: Birkenstock
Molti ti considerano un influencer. Sei d’accordo?
È un onore ricevere tutta questa attenzione. Detesto però il vocabolo “inluencer” nella sua accezione più comune. Non vengo pagato per indossare prodotti altrui, mi considero piuttosto qualcuno in grado d’influenzare sì le persone ma per accompagnarle a riflettere sul proprio modo di vestirsi, a sperimentare nuove combinazioni, in definitiva a essere più creative. E di questa responsabilità ne vado fiero. Molti mi considerano anche un precursore dei tempi, per via della mia capacità di fiutare le tendenze della moda prossime venture. Capacità riconosciuta dai professionisti del settore e incanalata nella mia società di consulenza Trendbrenner.
Sei molto attivo sui social media; quanto del tuo tempo dedichi a queste piattaforme?
Mediamente un paio d’ore al giorno, soprattutto al mattino quando, ancora a letto, faccio colazione. Attraverso cellulare, tablet e computer, controllo i miei canali, pubblicando nuovi post, rispondendo a commenti e offerte di lavoro. Ma è anche un modo per essere in contatto coi miei amici e colleghi, con cui scambio idee e impressioni.
© Alexander Palacios – tuta da lavoro: Levis, sandali: Birkenstock, cappello: Stetson
A Zurigo ti sei trasferito due anni fa, come pensi si vesta questa città?
Devo attingere alla religione per rispondere a questa domanda. Zurigo è una città protestante riformata da Huldrych Zwingli; le sue chiese ne declinano il pensiero purista e, a differenza di quelle cattoliche, sono completamente assenti di arredi opulenti. Sono trascorsi ormai cinque secoli dalla riforma protestante, tuttavia questo purismo aleggia tutt’ora sulla città riflettendosi anche sul modo di vestire dei suoi abitanti. Sebbene la palpabile eleganza non si dipinga di toni esuberanti, Zurigo non giudica permettendo completa libertà nel modo di vestirsi.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Attualmente sto lavorando alla creazione del mio sito web che conto di pubblicare dopo l’estate e a cui verrà integrato lo shop online. Come ambasciatore delle gonne per l’uomo parteciperò l’8 e il 9 luglio in quel di Amsterdam a Modefabriek,evento dedicato alla creatività nell’ambito della moda. Ma prima farò tappa al Pitti Immagine Uomo di Firenze dove, invitato da T-Michael, designer e artista rinomato per la qualità e l’innovazione delle sue creazioni, all’evento “5 Curators / One space”, un progetto in cui cinque fashion insider, conosciuti per la loro energia creativa e la loro passione per l’abbigliamento maschile, illustrano le abilità stilistiche di cinque selezionati designer. Personalmente presenterò il brand svizzero Garnison. Vi aspetto alla Fortezza da Basso dal 12 al 15 giugno.
© Lee Oliveira per New York Times Fashion & Style – kimono: Gerold Brenner, camicia: vintage, pantaloncini: Burkman Bros
Gerold Brenner: Instagram Facebook Trendbrenner LinkedIn
Immagine di copertina: © Alexander Palacios – giacca anni ’40 appartenente al padre, jeans: RRL. Tutte le immagini: Courtesy Gerold Brenner che indossa occhiali Kalkbreite Optik e Kreis 4 Optik di Zurigo
“Vestirsi a Zurigo. Quando il local fashion fa tendenza”. La precedente intervista: Magica Fiona!
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